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28
dicembre 2014
L’intervista/Hiroshi Sugimoto
Personaggi
IO, LO ZEN E LA FOTOGRAFIA
In Toscana per due interventi che hanno a che fare con il vuoto. Ce li siamo fatto raccontare da lui stesso
In Toscana per due interventi che hanno a che fare con il vuoto. Ce li siamo fatto raccontare da lui stesso
Non è la “tea room” che ha costruito nel suo studio di Chelsea a New York, ma il terrazzino privato della Galleria Continua a San Gimignano è una scenografia altrettanto equilibrata per l’incontro con Hiroshi Sugimoto (Tokyo 1948, vive tra New York e il Giappone). L’armonia dei gesti e il ritmo delle parole s’inseriscono perfettamente nella visione delle mura antiche dominate dalle torri, dal verde dei giardini, dal suono delle campane dei vespri. L’artista giapponese è stato in Toscana per un doppio appuntamento. Al Castello di Ama per l’Arte Contemporanea ha creato il site-specific Confession of Zero nella cappella settecentesca di Villa Ricucci, mentre a San Gimignano, nello spazio Arco dei Becci (fino al 31 gennaio 2015) sono esposte tre recenti fotografie della serie “Theaters”: Cinema Odeon, Firenze, Salle 37 e Palais de Tokyo, Paris (2013), insieme a Cinema Teatro Nuovo, San Gimignano (2014), un omaggio al luogo originario della galleria Continua.
Di lei si dice che si è avvicinato alla sua cultura d’origine studiando la filosofia zen mentre stava negli Stati Uniti. Quale è l’elemento della cultura giapponese che ha maggiormente influenzato il suo sguardo?
«Ho lasciato il Giappone a 22 anni. Nel 1970, quando sono arrivato negli Stati Uniti, il movimento dei figli dei fiori era al culmine. Gli hippie erano affascinati dal buddismo zen ed erano in molti a chiedermi cosa fosse la filosofia zen. Io non ero pronto a rispondere a quelle domande (ride), per cui in California ho deciso di studiare l’arte e la filosofia zen. Infatti, mi sono laureato alla Saint Paul’s University di Tokyo che è come Harvard, una delle migliori università, ma è privata e cristiana della chiesa episcopale. Un’università molto liberale. Lì ho studiato il Marxismo! (ride). Il mio professore era un monaco serissimo che non credeva affatto in dio. Ho avuto un’educazione veramente interessante – unica – dove ho potuto studiare soprattutto la filosofia occidentale. Per studiare Mao bisognava partire da Feuerbach, Hegel e poi Kant. Ho studiato più i filosofi tedeschi che quelli francesi e, naturalmente, il cristianesimo. Il mio cervello era allenato a pensare, ma non avevo studiato nessuna filosofia orientale».
C’è relazione tra il vuoto assoluto, il nulla a cui allude il numero zero di Confession of Zero e l’azzeramento degli schermi luminosi della serie Theaters, realizzata all’interno di vecchi teatri trasformati in cinema, dove il film è sintetizzato in un solo fotogramma astratto?
«Il concetto dello zero è stato scoperto dall’uomo antichissimamente, forse addirittura nell’età neolitica. Come è antico il momento in cui si è cominciato a contare. Un’operazione che ha dato il senso del tempo: ieri, oggi e domani. Il concetto di zero non significa nulla nella vita. Lo stesso è negli schermi cinematografici luminosi, dove sembra tutto azzerato, ma in realtà c’è una relazione con milioni di immagini. Qualche volta i troppi significati o l’assenza di segni riconducono allo stesso stato dello zero. Il punto zero è l’inizio. Forse è da lì che veniamo ed è il punto dove torneremo. Non è che la vita».
La sua fotografia è intesa come spazio mentale, ma che rapporto c’è nel suo lavoro con l’architettura che definisce uno spazio fisico?
«La maggior parte della mia pratica architettonica è inusuale. Nessuno mi chiede di fare delle case vere (ride). Certe volte si tratta di luoghi per la pratica religiosa o magari, come a Venezia per la Biennale Architettura, di una “casa per il tè”. Questa “tea house” è in sé una scultura, ma riveste anche aspetti funzionali. Sono un “giovane” architetto, ma sto studiando».
Nel suo studio newyorkese si è costruito una “tea house” dove insegna agli americani a godere del bello e dell’arte. In che modo la cerimonia del tè rappresenta la summa di tutte le arti performative?
«La cerimonia del tè è una forma d’arte dalle molteplici discipline. C’è l’azione, il movimento, la gestualità, la danza e anche il modo di intrattenere gli ospiti nel miglior modo possibile. Alcune volte mostrando dipinti e calligrafie. È come una mostra in una galleria. C’è anche la scultura nel modo in cui vengono realizzate le tazze per il tè. Alcune volte alla cerimonia del tè viene associato un determinato cibo preparato per l’occasione. Non è che la combinazione di gusto, sguardo e anche suono con il bollire dell’acqua. Sono tanti gli elementi, è come un grande spettacolo. Non è esattamente un rituale religioso, ma in un certo modo ci si avvicina. Infatti, le sue origini risalgono al XVI secolo e, secondo una recente teoria, sarebbe collegata all’arrivo in Giappone, al seguito dei portoghesi, dei gesuiti e dei frati francescani. Indipendentemente dal fatto che tra loro non corresse buon sangue, il rito del pane e del vino nella celebrazione della messa ha influenzato profondamente i giapponesi. Nella cerimonia del tè, infatti, ci sono gli stessi gesti. Non c’è niente di certo, ma è una teoria interessante».
Conoscere il lavoro di fotografi come Walker Evans e Ansel Adams è stato importante nella definizione del suo linguaggio che si basa sull’uso di una palette di grigi racchiusi tra i due estremi del bianco e del nero. In che modo, invece, Duchamp e il Minimalismo (in particolare Walter De Maria) le hanno dato altre chiavi di lettura del mondo?
«Ansel Adams e Walker Evans sono stati dei tecnici dell’artigianato. Ho imparato tanto da loro, soprattutto leggendo il libro scritto da Ansel Adams in cinque volumi, un manuale in cui sono descritti tutti i passaggi – dallo sviluppo alla stampa della fotografia – proprio come un menù di cucina. Io ho assaggiato tutte le pietanze, scegliendo quella che mi piaceva di più. Con attenzione facevo tutte quelle prove chimiche, sentendomi come un alchimista. Tecnicamente, quindi, ritengo Ansel Adams il mio insegnante, ma non per quanto riguarda l’estetica. Quanto al Minimalismo, ho deciso di diventare un artista quando sono arrivato a New York nel 1974. Avevo visto l’Arte Povera e, allo stesso tempo, Duchamp, Donald Judd, Flavin. Dentro di me pensavo che fossero pazzi, ma visto che riuscivano a vivere della loro arte, ho deciso di seguirli. Probabilmente avevamo gli stessi disturbi mentali (ride)».
Fotografo, architetto, designer, performer, “benshi” (voce narrante nei film muti), regista di produzione di Bunkaru (teatro di marionette), collezionista d’arte antica e di fossili… quale è il ruolo che sente appartenerle di più?
«Anche cantante d’opera! (ride). In realtà si tratta solo della mia lista di hobby (ride), perché non tutte queste attività producono denaro, anzi lo fanno perdere. Ma con la fotografia supporto tutto il resto. Avere denaro contante significa pagare le tasse (ride), io con quei soldi ci pago le mie collezioni d’arte, il teatro Bunkaru. C’è da avere paura a maneggiare tanti soldi, meglio spenderli! (ride). Sì, i soldi vanno spesi nel modo giusto. Ed è molto difficile trovare come spenderli nel modo giusto. Se qualcuno non sa come spendere i soldi, perché non compra un Sugimoto? (ride).
Manuela De Leonardis
In Home page: Hiroshi Sugimoto alla Galleria Continua di San Gimignano, foto Manuela De Leonardis