Categorie: Personaggi

L’intervista/Jan Dibbets e Marcella Beccaria | Fotografare il pensiero

di - 29 Aprile 2014
Metti un olandese in Italia. Ecco Jan Dibbets, classe 1941 e di casa ad Amsterdam, ma con un lungo rapporto con la nostra penisola, i suoi collezionisti e i suoi galleristi. Un po’ meno con le sue istituzioni, visto che quella che propone il Castello di Rivoli, “Un’altra fotografia”, è la sua prima retrospettiva in un museo italiano, e realizzata in stretta cooperazione con la curatrice Marcella Beccaria. Una selezione di cinquanta opere, alcune della collezione del museo torinese, molte altre invece provenienti da collezioni private e non apparse in pubblico per decenni. Quasi, insomma, un’esposizione di inediti. Come inedita, o da “riscoperta”, appare la pratica fotografica di Dibbets rispetto agli ultimi giorni, afflitti da bulimia di immagini: l’artista olandese, invece, seleziona, pensa, lascia passare talvolta anche lunghissimo tempo tra uno scatto e l’altro, non usa le immagini per “coprire” il mondo.
Si apre, insomma, insieme a “Un’altra fotografia” anche un altro orizzonte, elemento che Dibbets, insieme all’architettura, alla luce e al colore, ha indagato attraverso un processo “di sottrazione”, mettendo in chiaro più i significanti che non i significati degli elementi sul quale si è posato il suo occhio fotografico.
Ma Dibbets apre anche, metaforicamente, un nuovo orizzonte per il Castello di Rivoli, prima mostra nell’anniversario trentennale del museo. Che sopravvive agli alti e bassi della crisi, anche gestionale, e che non sembra mollare la presa, rilanciando un programma annuale di tutto rispetto. Ecco cosa ci hanno risposto, su diversi temi, sia l’artista che la curatrice.
“Un’altra fotografia” apre il 30esimo anniversario del Castello di Rivoli e anticipa un vasto programma del museo. La crisi è passata?
Marcella Beccaria: «Ci si augura di si, anche se diciamo la verità, l’idea di crisi è stata una “notizia” molto ribadita a livello di stampa, invece di approfondire altri contenuti… In ogni caso, penso che il programma dimostri che il museo, anche in anni difficili, ha continuato a lavorare e a porsi come un laboratorio per continuare a costruire un futuro. Un esempio pratico: Marinella Senatore ha avuto grande spazio nella “Manica lunga” lo scorso anno, in una grande retrospettiva mid-career che quest’anno andrà al Museo di Arte Contemporanea di Santa Barbara. Come sappiamo, tra le tante cose non facili del nostro lavoro, c’è anche il fatto di riuscire a itinerare una mostra di un giovane artista italiano. Ci siamo riusciti, spero sia per la forza del progetto ma anche per il buon nome e la professionalità che connota il museo di Rivoli. Nonostante i budget bassissimi abbiamo mantenuto alta la ricerca scientifica, una delle priorità del Castello, che nell’ambito nazionale ha fatto da apripista a modelli museali che si sono succeduti nel tempo. Ci auguriamo di continuare a lavorare in linea con la nostra mission, proponendo artisti di livello internazionale e promuovendo giovani italiani».
Qual è stato il criterio nell’allestimento delle immagini dell’artista e “come” si deve vedere questa mostra?
M.B. «Spero che la mostra ribadisca la grande importanza di Jan Dibbets nell’ambito di alcune esperienze fondamentali dell’arte contemporanea, come pioniere che ha liberato la potenzialità del mezzo fotografico nell’ambito del Concettuale, andando sempre avanti e non “fermandosi” mai alla facilità delle immagini. Da qualunque angolazione si guardi la produzione di Dibbets, ci si accorge del suo essere pioniere. Non dimentichiamo che ha anche insegnato per tanti anni all’Accademia di Düsseldorf e la sua influenza è rintracciabile nel lavoro di tanti artisti che lì hanno studiato».
L’esposizione di Dibbets contiene opere rare, quasi mai esposte in pubblico e custodite per decenni in collezioni private. È stato complesso, anche economicamente, recuperare il materiale? Ci sono in programma altre acquisizioni di Dibbets, già in collezione permanente a Rivoli?
M.B. «Dibbets è stato uno dei primi a varcare la soglia del Castello quando ancora non era museo. Già dai tempi di Rudi Fuchs, poi con la direzione di Ida Gianelli abbiamo acquisito opere del fotografo, che sono a loro volta in mostra insieme a opere provenienti da importanti collezioni private. Dibbets ha avuto in Italia riconoscimenti “storici” che è giusto ricordare anche attraverso la selezione delle opere in questa mostra: nel ’72, giovanissimo, rappresenta l’Olanda alla Biennale, con un Padiglione fuori dalle convenzioni, dove c’erano solo opere di natura fotografica e video-installazioni. Il collezionismo privato lo ha accolto dagli esordi, e certo non bisogna tacere il ruolo della galleria Sperone che lo ha sostenuto al tempo. Molte di queste opere sono spesso rimaste installate nella stessa casa magari per decenni. Alcune serie vengono ricomposte in mostra per la prima volta, è una grande emozione. Nel corso della preparazione del progetto lui ha ribadito più volte che in Italia ci sono alcune delle sue opere più importanti».
Jan Dibbets, è la sua prima grande retrospettiva in un museo italiano, nonostante lei sia di un po’ di casa nel Belpaese. Che rapporto ha con l’Italia?
Jan Dibbets: «Lungo e molto intenso, che include importanti momenti nella mia carriera. Nel ’72 alla Biennale di Venezia, e negli stessi anni lavoro con Gian Enzo Sperone e con alcuni artisti del gruppo dell’Arte Povera. Nel 72-73 sono stato un lungo periodo a Roma, tra gli artisti che invitati da Fuchs a “Overture” con Spoleto Floor, opera realizzata a partire dalle fotografie dei dettagli del Duomo della città umbra. Attraverso i decenni il rapporto continua; molte opere degli anni ’80 sono ispirate alla Toscana, con la pittura che entra nelle immagini. E poi ci sono stati tanti collezionisti italiani che mi hanno seguito, tra cui Panza Di Biumo».
Parlando dell’Italia e della Toscana, viene da pensare anche a un certo tipo di luce, una condizione che nelle sue immagini molto spesso è vistosamente indagata. Che cosa le interessa di questo aspetto?
J.D. «È molto importante, ma io uso nei luoghi la loro stessa luce. Non esistono trucchi o illusioni che esulino dalle possibilità tecniche del mezzo. Non ho mai illuminato con lampade, o simili, i soggetti che fotografo. Tutto quello che viene riportato fa parte delle possibilità intrinseche del soggetto, mai estrinseche».
A proposito di artificialità: lei è considerato uno dei padri della fotografia concettuale. Come vede le immagini oggi, all’epoca dei social media, dove è più forte il concetto di condivisione e velocità rispetto a quello del pensiero?
J.D. «La mia è una scelta precisa rispetto ad una pratica artistica. Io lavoro all’opposto rispetto a questa fame pantagruelica di immagini che ci circonda. Lavoro sul controllo e la selezione di ciò che fotografo. Non ho mai scattato fotografie e poi scelto le immagini. La gioia e la condivisione di informazioni sono un’altra storia, la mia fotografia è ragionata, non vuole essere una riproduzione del mondo».
Gli scatti che compongono le serie dei “New Colorstudies” potrebbero ricordare gli “Achrome” di Piero Manzoni in una versione post moderna. Lei è stato molto affascinato dall’analogia tra paesaggi (penso a Horizon Land – Sea). Quanto le interessa ancora questa dimensione?
J.D. «Vengo dalla pittura e sicuramente questo è costantemente un punto di riferimento presente nel processo compositivo. Forse è un occhio italiano che vede alcune citazioni, per altri (magari per un olandese) le mie “citazioni” saranno per Mondriaan o  Pieter Jansz Saenredam. Quanto all’analogia credo che, guardando bene le mie fotografie, non si scoprano possibilità metaforiche, né un impulso narrativo. C’è invece, appunto, sottrazione dell’informazione più che una storia di sottofondo. Prima ancora di scattare la fotografia io ho già operato il mio processo di selezione. Può passare anche un anno prima di scattare una fotografia: è un lavoro molto preciso».
A cosa sta lavorando oggi?
J.D. «New Colorstudies sono un ulteriore capitolo della mia sperimentazione, opere che riducono talmente l’informazione al punto di porsi solo come ipotesi di colore. Da un negativo vengono realizzate una serie di variazioni cromatiche molto precise: c’è anche una versione recentissima, una piccola serie appena uscita dallo studio. Ci sto ancora lavorando, ma ho voluto portarla. Con Marcella abbiamo convenuto di inserire anche una traccia di futuro, nell’ambito di questa mostra per Rivoli».

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