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19
maggio 2013
L’Intervista/Jeannette Montgomery Barron New York Scene
Personaggi
È nata ad Atlanta, ma all'inizio degli anni Ottanta "scappa" a New York. E qui la fotografia diventata un cosa seria, il materiale umano non manca: Leo Castelli, Andy Warhol, Basquiat, Mapplethorpe, Cindy Sherman, Ontani, Chia, Clemente e Cucchi. E lei li ritrate tutti. Ora, Jeannette Montgmomery Barron, che nel frattempo si è trasferita a Roma, presenta queste immagini in un nuovo volume: Scene. Mentre pensa ad altri progetti
Scene è la nuova monografia che Jeannette Montgmomery Barron (Atlanta, Georgia 1956, vive a Roma dal 2003) ha presentato recentemente da s.t. foto libreria galleria a Roma. Il volume, pubblicato da power House Books, racconta la scena artistica newyorkese degli anni Ottanta attraverso i ritratti dei suoi protagonisti che la fotografa ha scattato in bianco e nero con la sua Hasselblad. Un progetto che si ricollega al suo primo libro, edito nel 1989 da Bischofberger, la celebre galleria di Zurigo che pubblicava prestigiose edizioni d’arte. «Nel 1985 il gallerista venne nel mio studio e acquistò quaranta ritratti proponendomi di fare un catalogo» – ricorda Montgmomery Barron – «Dissi che andava bene, ma all’epoca ero giovane e non pensavo che facesse sul serio. Poi nel 1989 decisi di ricontattarlo, chiedendogli se era sempre disposto a fare il libro. Lui lo fece ma in un’edizione limitata di mille copie che era difficilmente reperibile: si poteva trovare solo alla Libreria Rizzoli. Questo nuovo libro è diverso dall’altro, perché ho rivisto i provini a contatto uno ad uno e li ho scansionati. Se anche qualche immagine è la stessa, il progetto però è completamente nuovo perché è diverso il testo con i miei ricordi di quei tempi che accompagna le immagini».
In Scene il mondo artistico newyorkese è rappresentato dai ritratti di Leo Castelli, Andy Warhol, Basquiat… ma ci sono anche gli italiani Chia, Clemente, Cucchi e Ontani. Come nasce l’idea di questo lavoro?
«Mio fratello mi presentò Francesco Clemente. Andai nel suo studio, a New York, nel 1983. Trascorsi circa un’ora scattando fotografie, pranzammo insieme, poi, una settimana dopo, tornai da lui per fargli vedere le foto. A Clemente piacquero molto e fu proprio lui a dirmi di fotografare anche il suo amico Sandro Chia. È stato un processo naturale in cui una persona mi diceva di farmene conoscere un’altra. Così ho avuto il numero di telefono di Keith Hering e poi quello di Robert Mapplethorpe, Cindy Sherman… Non feci altro che chiamarli».
Tra i personaggi ritratti, appunto, ci sono anche Mapplethorpe e Cindy Sherman. Che vuol dire per un fotografo fotografare un altro fotografo?
«È molto difficile! Mi rendeva molto nervosa perché pensavo che loro mi stessero giudicando, guardando come mettevo la pellicola nella macchina fotografica o come stavo fotografando. Ma sia Mapplethorpe che Cindy Sherman sono stati molto gentili. Mapplethorpe mi disse:”Come vuoi che mi metto? Seduto o in piedi, come vuoi tu”. Ricordo che parlammo della sua collezione di vetri italiani e delle persone che conoscevamo entrambi. Fu tutto molto “casual”. Poi un’ora dopo me ne andai».
Prediligi gli interni per i tuoi ritratti…
«Sì, in genere i miei ritratti sono all’interno, ma ad esempio Enzo Cucchi e Luigi Ontani li ho fotografati fuori, qui a Roma».
Quali sono i tuoi ricordi di quell’atmosfera che hai respirato in prima persona, avendo vissuto in quegli anni a New York dove ti eri trasferita da Atlanta, la tua città natale, per studiare all’ICP – International Center of Photography?
«Ricordo che un mio amico, Fred Hughes, manager commerciale di Andy Warhol, diceva che la gente si trasferisce a New York soprattutto per cambiare, diventare qualcun altro. Per me è stato lo stesso. Volevo perdere la mia identità del sud, la storia che è qui (indica il libro “Mother’s Clothes” che è sul tavolino) e diventare anonima».
Nel 1985 sei tornata più volte a fotografare Keith Haring nel suo studio: a quei ritratti è dedicato il tuo libro Session with Keith Haring…
«Non ricordo chi mi presentò a Keith Haring, ma non feci altro che entrare nello studio e lui fu molto spontaneo. Immediatamente si mise a muoversi senza che gli dicessi nulla. Scattavo, scattavo, scattavo».
Dalle tue parole e dalle tue immagini emerge una realtà molto diversa da quella di oggi. Sembra che ci fosse una maggior apertura da parte degli artisti.
«Sì, penso di sì. Oggi ti chiedono quale è l’utilizzo che farai delle foto e devi far firmare la liberatoria. In un certo senso era tutto più innocente».
Per i ritratti hai sempre usato il bianco e nero. Perché questa scelta?
«Per me il bianco e nero è fuori dal tempo e dalla storia. Non descrive esattamente l’epoca in cui la foto è stata scattata, mentre il colore – anche a livello tecnico – è maggiormente identificabile».
Oggi fotografi in digitale?
«Non molto. Continuo ancora a fotografare con la pellicola, come nel nuovo progetto a colori a cui sto lavorando. Uso una macchina di medio formato compatta che posso portare in giro, ma poi scansiono i negativi e stampo in digitale, perché la qualità della stampa digitale è migliore. Mi piace avere il tempo di pensare quando scatto, mentre il digitale è più rapido e si riflette di meno».
Quale è il soggetto di questo nuovo progetto?
«L’ho chiamato “Untitled color project”. All’inizio ho fotografato le persone, ma poi sono passata agli oggetti, fotografo qualsiasi cosa».
Tornando al ritratto quale è la difficoltà, per te, di riuscire a cogliere la natura più profonda del tuo interlocutore? C’è una regola che segui adattandola alla circostanza?
«È qualcosa di spontaneo che avviene nell’incontro con l’altra persona. Non c’è una regola».
Ti è mai capitato di non riuscire a ritrarre qualcuno?
«Sì, solo una volta. Ma non posso dire il suo nome. È una donna, una scrittrice».
In Mother’s Clothes (2007), che hai realizzito durante la residenza all’American Academy di Roma delinei un toccante ritratto di tua madre in cui l’assenza è la chiave di lettura. O meglio racconti la sua presenza attraverso i suoi abiti ed accessori accompagnati dai tuoi scritti che appaiono come pagine di un diario personale. Un’operazione analoga a quella della fotografa giapponese Miyako Ishiuchi con Mother’s, l’installazione realizzata in occasione della Biennale di Venezia 2005. Anche per te è stato un modo per prendere le distanze dal tuo vissuto personale, liberandoti del dolore e ristabilendo un rapporto paritario – da donna a donna – con la figura di tua madre?
«Conosco quel lavoro di Miyako Ishiuchi, ma per me non si è trattato di fare qualcosa di pesante e triste, piuttosto una sorta di celebrazione di mia madre. Naturalmente per fare questo lavoro ho dovuto prendere le distanze. Ma è stato anche un modo per capire tutto quello che non avevo capito di lei. Ed erano molte le cose che non avevo capito! Mia madre era una donna di un’altra epoca».
Perché per questo progetto hai usato il colore?
«Il colore è più allegro e i vestiti stessi sono così belli e colorati che non avrei potuto immaginare di lavorare in bianco e nero».
Un passo indietro nel tempo, cosa ti ha spinto a diventare fotografa?
«Ho sempre fotografato fin da quando ero bambina. A quindici anni ho avuto la mia prima macchina fotografica, sviluppavo i rullini e stampavo da me. Ma ad Atlanta non c’erano scuole di fotografia, questa è una delle ragioni per cui sono scappata a New York. Un anno dopo anche mio fratello mi ha seguita. Lui è regista e produttore cinematografico: entrambi siamo entrati nel mondo della cultura».