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10
marzo 2016
L’INTERVISTA/KENGIRO AZUMA
Personaggi
90 anni trascorsi in un istante come una goccia d'acqua
Incontriamo il maestro giapponese in occasione del suo compleanno
Incontriamo il maestro giapponese in occasione del suo compleanno
Kengiro Azuma, classe 1926, ai 90 anni che compie il 12 marzo non ci pensa. È carico di energia, curiosità, entusiasmo per la vita, ha un volto levigato come una porcellana, sembra un saggio Zen dall’età indefinibile, sorridente, affabile, dai modi misurati.
Ex pilota da caccia dell’Aviazione della Marina Imperiale giapponese durante la seconda guerra, a 19 anni nei gruppi speciali d’assalto” kamikaze” , sceglie di scarificare la sua vita per onorare l’Imperatore, considerato una divinità. È cresciuto in una modesta famiglia di fonditori di bronzo, che si trasmette la bottega da 12 generazioni di padre in figlio, viene educato a rispettare tradizioni, valori e doveri. Kengiro, deluso dalla sconfitta della guerra, sostituisce l’arte all’amor di patria, lo stato ideale dove ricercare forme dell’esistenza. Non a Parigi, ma a Milano crogiolo di novità negli anni ’50. Diventa scultore all’Accademia di Belle Arti di Brera e trova casa in un ex edificio cinematografico d’inizio’ 900, in un vecchio cortile di Bovisa, dove elabora il suo linguaggio. Kengiro Azuma, nome che nella lingua giapponese significa “secondogenito”, ha collezionato premi prestigiosi, ha quasi attraversato un secolo e sorprende per una umiltà disarmante. Nel 1996 il Comune di Milano gli ha conferito l’Ambrogino d’Argento. Sono nati a Milano i suoi figli avuti dalla moglie Shizuyo, si chiamano Mami, che prende il nome dalle iniziali di Marino Marini e Ambrogio (architetto), come il patrono della città. Per Milano il maestro ha realizzato “MU141: La vita infinita” (2015): una scultura in bronzo nel piazzale del Cimitero Monumentale. È in corso una sua mostra personale con sculture e disegni inediti alla galleria Cortina, in via Mac Mahon 14.
Lo incontriamo nel suo laboratorio caotico, stracolmo di materiali, gessi, disegni, sculture, fotografie, premi, strumenti del mestiere, dal disordine vitalistico, senza riscaldamento, dove ancora progetta forme dell’esistenza in bilico tra il vuoto e il pieno, l’assenza e la presenza, il visibile e l’invisibile. Senza paura del futuro e nessuna intenzione di andare in pensione.
Maestro quando e perché è arrivato a Milano dal Giappone?
«Nel 1956, da giovane ero pronto a sacrificarmi per la patria, dopo la guerra in seguito alla delusione della sconfitta e la scoperta dell’umanità dell’Imperatore, considerato una divinità da quasi tutti i giapponesi della mia generazione, ho cercato nell’arte un altro valore assoluto in cui credere. Tra il 1949-1953 mi sono laureato in scultura all’Università nazionale di Tokio, e pur avendo ottenuto un posto sicuro come assistente, dopo aver visto un catalogo di scultori italiani, Manzù, Mirco, Messina, Minguzzi, e in particolare una monografia di Marino Marini pubblicato dalla galleria. il Milione, rimasi folgorato dalla sua modernità. Grazie a una borsa di studio ottenuta dal governo italiano, ho potuto lasciare il Giappone e non ho esitato a lasciarmi l’arte del passato alle spalle, poiché sono attratto dalla contemporaneità. A Milano mi sono iscritto al corso di scultura a Brera di Marino Marini di cui sono diventato assistente e in seguito amico fino alla sua scomparsa nel 1980. Ho scelto Milano perché negli anni’50, con Lucio Fontana, amico generoso e tra i primi ad acquistare i miei lavori, insieme ad altri artisti come Piero Manzoni si sperimentavano nuovi linguaggi, più che a Firenze o Roma ancora legate all’antichità. Sono sempre stato attratto dalla contemporaneità. Ho condiviso anni formidabili con Aldo Crippa, Dova, Alik Cavaliere, Arnaldo Pomodoro, amici, solidali e non competitivi».
Com’è stato il suo rapporto con il suo maestro Marino Marini?
«Ci fu intesa speciale, mi gratificava la fiducia totale che dimostrava nei miei confronti, ero suo assistente, lo osservavo con attenzione, seguivo il suo stile, fu lui a indirizzarmi verso una ricerca più personale e un giorno mi disse: “tu devi smetterla di imitarmi. Tu hai dietro e dentro di te una tradizione, una patria,un’infanzia, delle immagini originali. Questo devi tirare fuori, questo devi raccontare”, e poi: “Io sono etrusco, tu sei giapponese”. Mi lega a Marini una profonda gratitudine».
Quando ha individuato la sua strada e si è “emancipato” da Marino Marini ?
«È stato un percorso lento a ritroso nel tempo. Sono tornato alle origini culturali giapponesi, alla filosofia Zen, per elaborare un processo creativo basato su premesse spirituali prima che estetiche, quando ho capito che mi interessava rendere visibili le forme dell’esistenza, partendo dal concetto di “MU”, che nella lingua giapponese significa vuoto, assenza. “MU” è la parte invisibile dello “YU”, il pieno, il presente e il visibile. Mi sono concentrato sulla dialettica tra finito e non finito, spirito e materia, ho sperimentato diversi materiali e dagli anni’60 il bronzo è la principale materia del mio fare. La mia scultura a forma di goccia d’acqua racchiude diversi significati. Solidifica quell’istante fugace tra essere e non essere. “MU” e un numero a fianco intero per le sculture e zero per i disegni, è il titolo di tutte le opere. La goccia d’acqua contiene il ritmo perenne della vita: è una forma perfetta simbolica che condensa il concetto di liquidità e solidità, tende alla Terra e la nutre e poi diventa vapore acqueo, e i buchi e i solchi catturano la luce sul vuoto, fanno palpitare di vita la scultura»
Quando inizia la sua collaborazione con Gianni e Grazia Bolongaro?
«Nel 1998, in occasione di una mia mostra, quando Gianni e Grazia Bolongaro mi hanno invitato a realizzare un’opera site-specic nella loro Villa a Montemarcello, La Spezia, attuale Parco Ambientale la Marrana. Mi sono confrontato con la Natura, ho ideato un’opera all’aperto, osservando l’ondulata varietà del terreno, piante, fiori e in armonia con il luogo e per il luogo. È nata così la scultura ambientale “Sogno”: un’onda sinuosa in ferro (cm 150x2680x15), opera conclusiva di un percorso espositivo studiato per l’occasione, una “muraglia” creata per evidenziare un limite dello sguardo, un altro punto di vista, un invito ad aprirsi al sogno dell’infinito, e da allora siamo diventati e rimasti amici».
Jacqueline Ceresoli