29 dicembre 2018

L’intervista/ Luisa Laureati – 1

 
IO, L’ARTE E ROMA
Prima parte di un resoconto sincero, ironico e partecipato di una città che c’era, con la sua internazionalità

di

Luisa Laureati è stata una protagonista dell’arte a Roma, dagli anni sessanta ad oggi.
Nei primissimi anni ‘60 è stata compagna di Franco Angeli, mentre negli anni ‘70 moglie di Giuliano Briganti. Formatasi con i due artisti amici del padre, Corrado Cagli e Roberto Sebastian Matta, Luisa racconta la sua vita trascorsa in una Roma accogliente e internazionale, con simpatia e leggerezza, con molta sincerità e un pizzico di ironia.
Come ti sei avvicinata all’arte contemporanea?
«In maniera del tutto naturale. Ero una ragazzina problematica- credo fossi dislessica- e quando non conoscevo le parole, intrecciavo le lettere leggendo: in prima elementare imparavo tutto a memoria. Ho cominciato a leggere ad alta voce tardissimo, mentre prestissimo a divorare i libri; a 11 anni ho letto La Religiosa di Diderot e Candido di Voltaire e andai avanti con i grandi dell’800, forse iniziai per piacere a mio padre, poi il piacere divenne mio».
Cosa faceva tuo padre?
«Era un commissario di polizia. Aveva fatto l’ufficiale a Palermo con Franchina e Guttuso. A Roma aveva conosciuto Corrado Cagli, nel 1945, di ritorno dagli Stati Uniti dove si era rifugiato in quanto ebreo. Nello studio di Corrado mio padre conobbe Stravinsky, Visconti, Bontempelli, Capogrossi, Afro, Mirko e, più tardi, Matta. In quegli anni del dopoguerra gli intellettuali che venivano a Roma passavano a trovarlo. Corrado era una persona molto affascinante e colta, come del resto tutta la sua famiglia, campioni di ebrei internazionali».
Come hai conosciuto Cagli?
«Spesso la domenica mio padre mi portava nello studio di Cagli. Corrado era nelle giurie di molti premi letterari, che allora proliferavano, ma non leggeva mai i libri dei concorrenti. Questo compito era affidato a mio padre, lettore infaticabile, e tra di loro discutevano su chi dovesse vincere il premio. A me era affidata l’apertura della tanta posta che si ammucchiava sulla scrivania. Per me quell’incarico era una festa, come aprire la valigia delle meraviglie: lettere, cartoline, inviti a mostre, a teatri da tutto il mondo. A casa nostra invece arrivavano solo rare lettere dalle Marche dai nonni e dagli zii».
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Corrado Cagli
Quindi hai conosciuto l’arte attraverso Corrado…
«Attraverso Quirino Ruggeri, Edgardo Mannucci, Emilio Villa e Burri. Nei primi anni Cinquanta arrivò a Roma Roberto Sebastian Matta che divenne amico di mio padre». 
Come mai? 
«Era venuto sei mesi prima a Roma con una grande macchina americana e chiese a papà cosa doveva fare con questa auto di cui non c’era il documento di entrata in Italia. Se la polizia se ne fosse accorta avrebbe requisito l’auto e avrebbe fatto una grossa multa al proprietario. Mio padre gli propose di accompagnarlo in un garage e abbandonare l’auto ai margini della città. La proposta piacque moltissimo a Matta e immediatamente la misero in pratica. Questo diventò poi uno dei racconti ricorrenti di Matta sul suo inizio di vita romana».
Ti ricordi le prime mostre che hai visto?
«Credo di si, nel gennaio del 1950 alla galleria Il Secolo si inaugurò la mostra di Giuseppe Capogrossi con un catalogo in collaborazione con la galleria il Cavallino di Carlo Cardazzo e un saggio critico di Corrado Cagli. Vidi dei grandi quadri con dei forconi quasi tutti neri, forse alcuni rossi. Portavo il mio primo vestito con le maniche al gomito, segno che ero diventata grande perché avevo 11 anni. Molti anni più tardi avevo come compagna di scuola Beatrice Capogrossi, la prima figlia di Capogrossi. Bellissima, ma vaga e somara come me: facemmo insieme un esame di riparazione e andai a studiare nello studio-casa loro a via delle Terme Deciane. Lì per la prima volta vidi una donna bella e completamente nuda, Costanza Menney, mamma di Beatrice e moglie di Giuseppe, pittrice con poca fortuna. Anni prima Costanza era stata follemente innamorata di Corrado, e si raccontava che fosse apparsa nel suo studio avvolta in una pelliccia di leopardo anche allora sotto nuda, ma…purtroppo invano! Corrado amava molto le donne ma non era interessato a quel tipo di fisicità».
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Alberto Burri, 1959 courtesy Fondazione Burri
Corrado Cagli è un artista oggi dimenticato…
«Devo ammettere di si, anche se in un questo momento c’è una mostra a Londra accompagnata da un accurato catalogo e sono stati da poco pubblicati due libri di cui uno di Enrico Crispolti, molto bello».
Dove abitava?
«Al Gianicolo. Il suo studio era pieno di fascino».
Già da allora avevi capito che l’arte sarebbe stata la tua vita? 
«No, ero semplicemente innamorata di mio padre, e tutto quello che faceva era sacro. Con lui ho conosciuto Alberto Burri e tanti altri intellettuali della Roma del dopoguerra, che era una città straordinaria…».
Tuo padre conosceva Burri?
«Erano molto amici, a seguito di un episodio singolare. Un giorno suona il telefono a casa nostra ed era Burri che raccontò che la sua compagna, la ballerina americana Minsa Craig, era stata messa in prigione perché faceva confusione in un locale a Trastevere. La Roma del ministro Scelba era in uno stato di polizia…Burri chiese a mio padre aiuto e lui rispose che doveva sposarla per evitare che fosse rimpatriata e così successe!».
Negli anni sessanta sei andata a lavorare da Bruno Sargentini all’Attico di Piazza di Spagna… 
«Si, gli artisti mi avevano adottata. Ero incapace di fare quasi tutto ma li ammiravo, e forse questo a loro piaceva. Ho imparato grazie a Laura Drudi Gambillo, la prima moglie di Enrico Crispolti, che mi ha insegnato qualcosa sull’arte contemporanea. Mi parlava della Pop Art, mi ha fatto vedere Savinio con occhi diversi».
Dove l’avevi conosciuta?
«Alla Quadriennale, dove ho lavorato per un anno, dal 1959 al ’60. Fu Laura che mi presentò a Bruno Sargentini, che cercava una ragazza per stare in galleria».
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Gastone Novelli, Franco Angeli e Nino Franchina, 1962, foto di Mario Dondero
Com’era l’Attico?
«La galleria era un appartamento affacciato su piazza di Spagna, dove non veniva mai nessuno. Solo dopo le cinque del pomeriggio si animava un po’. Avrei dovuto rispondere al telefono e accogliere chi arrivava, ma pochissimi chiamavano e arrivavano solo a volte, la mattina, gli artisti della galleria. Allora era una gioia, di tutti diventai amica, leggevo tutte le riviste e i cataloghi che arrivavano e telefonavo ai miei amici. Sargentini si irritava, giustamente, quando trovava la linea occupata».
Venivano collezionisti?
«Solo quando arrivava Bruno, che era il direttore dell’Ina Casa. Ero diventata amica dei molti artisti della galleria. Meraviglioso il vecchio Francalancia che ogni tanto capitava in galleria, Leoncillo che andavo a trovare a studio e mi faceva vedere il suo lavoro. L’amicizia durò fin quando non ebbi la pessima idea di presentargli Angelica Savinio, della quale si innamorò perdutamente…Leoncillo mi raccontò che per avere il suo studio, che apparteneva all’Inps si era privato di 7 sculture. E naturalmente Victor Brauner di cui diventai amica per sempre, ma questa è una storia lunga…».
Bruno Sargentini si vedeva in galleria solo nel tardo pomeriggio?
«Verso le cinque arrivavano il ministro Campilli, Otolani, presidente dell’Inps, Anfuso, che mi invitò a casa sua a vedere i tanti de Pisis, bellissimi, e molti anni dopo quando ebbi la galleria dell’Oca mi prestò. Poi altri collezionisti, ma le vendite furono misteriose, non assistetti mai. Le mostre le sceglievano Enrico e Laura Crispolti. In quel periodo mi innamorai di Franco Angeli, che conobbi attraverso mio padre, ma lui non veniva all’Attico».
Ludovico Pratesi
Continua…

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