Quando si parla di utopia, è facile farsi trascinare dall’uso comune del termine e associare la parola ad ambizioni irrealizzabili, se non all’inquietante ideologia di qualche totalitarismo, mentre magari nella mente scorrono le immagini di località astratte.
In filosofia, il concetto di utopia è ben definito e la nascita del termine si deve all’omonimo celebre saggio del 1516 di Thomas More, che propone una società ideale, emblematicamente collocata su un’isola. Ma la storia degli sviluppi del pensiero utopico e dei suoi intrecci con quella dell’Occidente è più lunga e complessa: ne è intrisa anche la Repubblica di Platone, e ha un raggio d’azione più ampio di quello che si potrebbe pensare.
Per restringere un po’ il campo può essere utile la definizione data dallo storico della filosofia Valerio Verra: «L’utopia si configura .. come alternativa critica rispetto alla realtà presente, esperita e vissuta».Dal versante dell’arte Hanno-Walter Kruft fa un passo oltre, spiegando che «La storia dell’utopia, almeno in Occidente, è la storia dell’autoconservazione dello spirito», mentre per Ernst Bloch diventa la docta spes.
Insomma, non solo Nietzsche, Futurismo, Marxismo o Avanguardia russa: l’utopia, vista attraverso la lente filosofica, si rivela la spinta primaria verso qualsiasi miglioramento della realtà culturale, politica, tecnologica o sociale. Si configura, quindi, come la propulsione imprescindibile di qualsiasi sviluppo, fino ad arrivare alla concezione secondo la quale “l’utopia non è altro che la verità di domani”.
Seguendo queste indicazioni, ci si può rendere conto di come si allarghi la sfera della produzione di arte che ricorre a un pensiero di matrice utopica, senza che dietro le opere dei singoli artisti, siano presenti concezioni radicali o ben delineate, come quelle che portavano futuristi ed esponenti dell’Avanguardia russa a vedere l’arte come strumento per la “necessaria riprogettazione dell’universo”.
Anche fermando lo sguardo all’ultimo secolo, il legame arte-utopia diventa strettissimo, e prende la strada della diversificazione dei linguaggi, alla ricerca di un’azione concreta sulla realtà, arrivando a toccare il lavoro di molti artisti attivi sulla scena contemporanea, al di là delle singole poetiche. Da Duchamp, a Joseph Beuys, da Christo a Jim Dine, da Jasper Johns a Claes Oldenburg, da Sol Lewitt a Meret Oppenheim e Andy Wahrol, prende forma un percorso di comunicazione e scambio arte/vita, nel quale l’opera d’arte si moltiplica, ed entra in diretto contatto con il quotidiano.
Alcuni indizi di pensiero utopico si rintracciano anche nel lavoro di Marcello Jori (Merano, 1951), che si sviluppa seguendo una poetica che pone al cento la figura dell’artista – elevata a livello sacrale – e il suo corpo. Abbiamo sentito Jori, in occasione di “La Gara della Bellezza” e “La Città Meravigliosa degli artisti straordinari”, due mostre ospitate in provincia di Bolzano, rispettivamente a Museion (con un evento che ha anticipato una personale alla Fondazione Marconi di Milano) e Castel Tirolo vicino a Merano, a cura di Letizia Ragaglia con Frida Carazzato (Museion) e di Danilo Eccher (Castel Tirolo). Ne abbiamo parlato con lui.
Arte come avventura: dagli “Albi dell’Avventura”, a “La Guarigione”, e “La gara della bellezza”. L’installazione ospitata a Museion, è stata preceduta da un’azione emblematica, che porta a coincidere arte e vita assumendo le forme di un modello positivo e propositivo di intervento sul reale.
«Certo, è assolutamente così, è questo il focolaio del mio incendio, quello che mi ha infuocato di passione dall’inizio: avvicinare arte e vita e scatenare l’esplosione. Usare la vita per dare vita all’arte quando sta morendo e usare l’arte quando sta morendo la vita. Questa è la missione! Resuscitare artisti scomparsi e girare con loro per mano a fare l’arte nuova, nella vita nuova. Assomiglia molto all’eternità. La chiamo la catena della felicità: nati, giovani, maturi, vecchi, morti, nati, giovani… Tutti insieme appassionatamente nel rispetto di ogni stagione. Così, grazie a Giorgio Marconi che mi ha voluto credere, mi sono trovato in cima a una montagna in compagnia di Lucio Fontana con un taglio su tela ad aspettare la neve per guarire finalmente la ferita dell’arte moderna. Ma anche quando ho trasformato il taglio di Fontana in una croce e sono riuscito a metterla sull’altare maggiore della basilica di San Petronio, sotto la croce di Cristo con il permesso della Chiesa, anche lì è stata una potente emozione: la croce dell’arte e quella di Dio che si incontravano… mi è venuto da piangere, davvero. Quest’ inverno invece, dopo anni di attesa, all’Île de la Jatte di Parigi ho allestito un rito delicato: ho portato la riproduzione del quadro a grandezza naturale (207,6×308 cm) Un dimanche après-midi à l’ìle de la Grande Jatte di George Seurat, nella vera isola. Ho innalzato l’opera intelaiata in mezzo al prato che era stato dipinto da Seurat e ho atteso la neve per vederla cadere davanti al quadro. È così che in silenzio ho potuto assistere a un incontro dolcissimo, una gara di bellezza mai vista prima: la sfida fra il puntinismo colorato dell’arte fatto di pennellate e quello bianco della natura, fatto di fiocchi di neve».
Dalla pittura tout court al fumetto, dalla scenografia ai romanzi, dal design ai libri d’artista, alle collaborazioni con Linus, Vogue e recentemente con il Corriere della Sera, da subito ti sei mosso in molte direzioni.
««A 13 anni ho cominciato a sviluppare conoscenze nei vari compartimenti stagni delle arti fino a rompere gli argini e nuotare oggi in un unico grande mare, quello dell’arte totale. Nel rispetto di una sola regola inviolabile: la riconoscibilità. Quando ho cominciato con la volontà dell’eclettismo era pericoloso, si rischiava di essere scambiati per superficiali, mentre il mio approccio era duramente professionale. Si trattava di conquistare abilità diverse in tempi lunghi, di sviluppare relazioni distanti fra loro, fare più vite in una. Oggi per fortuna il mio atteggiamento è diventato di grande attualità ed è visto come ricchezza».
La città – quella Meravigliosa abitata dai grandi nomi dell’arte contemporanea ma anche quella mastodontica (20 metri per 70) ideata per la scenografia del concerto di Vasco Rossi nel ’95 – è un tema ricorrente all’interno della tua ricerca. Luogo di incontro per eccellenza, ma anche di possibile isolamento, la città nel tuo lavoro, sembra assumere dei connotati che la riportano a una dimensione più a misura d’uomo.
«È da subito, da quando ho avuto consapevolezza della mia vocazione, che lavoro sull’artista, sul suo corpo, il suo pensiero e il suo pensiero incarnato nell’opera. Ho sempre saputo che prima o poi sarebbe venuto il momento di costruire una Città per ospitare abitanti così preziosi. Dovevano essere protetti dal rumore e dall’inquinamento spericolato che oggi più che mai assedia la necessità e l’oggettività della grande arte. Non a caso mi sono ritrovato a fondare La Città Meravigliosa degli Artisti Straordinari in un luogo medioevale, il Palazzo Comunale di Siena e a continuarla a Castel Tirolo, vera e propria fortezza dell’anno 1000. Ho cominciato negli anni Settanta manipolando i corpi di artisti scomparsi, come Picasso, Klee, Ernst. Negli anni Novanta ho iniziato a selezionare artisti viventi destinati all’immortalità. Il primo che ho ritratto dal vero è stato Mario Merz, il corpo preistorico dell’arte contemporanea, il secondo Giulio Paolini, poi Boetti, Kiefer, Richter, Nitsch, Castellani nel 2007, l’ultimo: Walter De Maria dopo Rudolf Stingel. Purtroppo in questi ultimi anni Merz, Sol LeWitt e Boetti sono morti, per questo alla mostra di Castel Tirolo saranno esposti nella Cappella. La Città mi costringe a un’opera di relazioni vere con i cittadini abitanti la mia pittura, ad una faticosa selezione di artisti assolutamente difficili alla coabitazione con altri simili. Forse la vera utopia è la proposta di superamento dell’ego in un contesto così autoreferenziale. Ma poi alla fine gli artisti sono qui, vicini in una stessa città con le loro differenze intatte. Solo quattordici geni, nello spazio di 17 anni, per ora».