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L’Intervista/Marina Paris | Come espandere la realtà con un qualcosa che non c’è

di - 6 Dicembre 2013
È ormai da circa un decennio che l’artista romana Marina Paris lavora sull’architettura e in particolare sugli spazi pubblici vuoti, che, senza presenze umane diventano dei luoghi con una carica di desolazione spesso angosciante. In occasione della giornata del Contemporaneo, lo scorso 5 ottobre, l’artista marchigiana è intervenuta con tre installazioni “site-specific” nel tessuto architettonico della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di cui, come per magia, ha aumentato gli spazi aprendo delle finestre virtuali che, come corridoi spazio-temporali, portano il visitatore fuori dalle mura del Museo in alcuni luoghi storici della città. La mostra, curata da Claudio Libero Pisano e Angelandreina Rorro, si intitola “62+3” e infatti idealmente il lavoro fotografico della Paris aggiunge tre sale espositive alle sessantadue di cui si compone la Galleria. Amplificare lo spazio, farlo risuonare come uno strumento, riuscire a farlo vibrare mediante l’assenza è la cifra distintiva del lavoro di Marina Paris che qui riesce perfettamente nell’intento di creare un dispositivo di percezione visiva straniante ma allo stesso tempo così ben inserito nel contesto da sembrare una presenza preesistente. Le tre installazioni fotografiche sono veri e propri cannocchiali ottici che ci trasportano in altrettanti luoghi storici della città in maniera così immediata da farci pensare che forse ciò che stiamo vedendo non è un artificio ma la realtà. Il cortile di quella meraviglia barocca che è la Chiesa Di Sant’Ivo alla Sapienza si apre come per incanto davanti agli occhi dei visitatori, così come il cortile dell’Oratorio dei Filippini o l’archivio di Stato dell’Eur, e l’effetto di delocazione è sorprendentemente amplificato dall’utilizzo delle cornici in legno o travertino che riprendono le sagome delle porte che immettono nelle sale espositive della Galleria.

Come mai lo spazio e il luogo sono così importanti nel tuo lavoro?
«Da sempre sono interessata allo spazio e a modificarne la percezione. Da questa idea sono nati lavori come Parco del 2003 alla Fondazione VOLUME! di Roma, Variable Space del 2007 alla Galleria Pack di Milano e Ambiente Mobile del 2008 al Palazzo delle Esposizione di Roma. In tutti questi lavori sono intervenuta sullo spazio, modificandolo radicalmente e restituendone una visione nuova con una percezione diversa. In Parco ho ricostruito una sorta di parco, attraverso suggerimenti audio-visivi. Ho cercato di portare una realtà esterna all’interno di uno spazio privato, con un intento straniante e sovversivo. Con Variable Spaces il pavimento del cortile antistante la galleria Pack, ricoperto di materiale specchiante e deformante, ribaltava la struttura architettonica della galleria, capovolgendo i piani e la percezione della realtà, dando allo spettatore una visione ribaltata del mondo. Ambiente Mobile è il lavoro ideato e realizzato appositamente per gli spazi del Palazzo delle Esposizioni in occasione della XV Quadriennale di Roma, un corridoio composto da un tapis-roulant si muoveva in senso contrario al percorso di marcia, così da rendere instabile e difficoltoso il suo attraversamento e il passaggio da una sala all’altra del Museo. La percezione interna dello spazio, ma anche delle sale espositive attigue, veniva alterata, creando spaesamento e disturbo».

Che obiettivo ti prefiggi di raggiungere con questo tipo di interventi?
«Mi interessa non solo reinventare e modificare un ambiente, ma anche creare un luogo dove poter entrare in relazione con altri, condividere le esperienze».
Alla GNAM le tue installazioni fotografiche sono così perfettamente inserite da sembrare preesistenti. Come sei riuscita, pur con un lavoro di grande formato, a mimetizzarti con lo spazio?
«L’intervento alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna è nato dal desiderio di dialogare ancora una volta con lo spazio ospitante. Tutta la struttura del Museo è caratterizzata da grandi porte in travertino o in ciliegio, che collegano le diverse sale espositive ed è attraverso queste che ho voluto manipolare lo spazio. Ho creato nuove porte, identiche a quelle preesistenti all’interno delle quali ho inserito le immagini (fotografiche) di altri luoghi accentuatamente prospettiche, in modo da creare un preciso inganno visivo. Accanto alle porte reali se ne sono quindi aggiunte altre che aprono “ad altri ambienti”, ad altri spazi che fanno parte della storia della città di Roma, come l’Archivio di Stato a Sant’Ivo alla Sapienza, l’Archivio Storico Capitolino presso l’Oratorio dei Filippini e l’Archivio Centrale all’Eur. L’inganno mimetico è completo, l’intento è quello di generare nel visitatore che si aggira nelle sale del Museo, un effetto di sorpresa e di curiosità, affidando alla sua capacità di osservazione la scoperta dell’elemento estraneo al contesto».

Hai scelto tre archivi, tre luoghi di studio e di raccolta questa scelta ha a che fare con il tuo interesse per la memoria? Memoria storica, memoria private o, come ha sottolineato Giacinto di Pietrantonio in un’intervista che ti ha fatto nel 2010, memoria “estetica” data la tua scelta di utilizzare la fotografia?
«La fotografia è solo un mezzo per rendere l’idea del lavoro, mentre la scelta di mostrare tre immagini di archivi romani è nata dalla riflessione su un luogo, come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che conserva memorie e documenti, che custodisce con la sua meravigliosa collezione, la storia di una città e la storia dell’arte. Memoria come filtro di lettura del presente».
In queste architetture immobili e come sospese in una dimensione metafisica l’assenza di presenza umana non sottolinea l’angoscia tipica dello “spazio umano-svuotato dalle presenze umane”, ma al contrario ne aumenta il fascino è un obiettivo che ti eri posta?
«Le immagini in mostra sono state scelte perchè sedi importanti di archivi, poi per la loro architettura di cui è stata inquadrata una parte specifica, funzionale al mio intervento per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Sant’Ivo alla Sapienza è stato scelto in quanto sede dell’archivio di Stato, che con le sue fonti documentarie racconta la storia del nostro Paese. Riguardo all’assenza di presenza umana nelle fotografie è dovuta esclusivamente al fatto che trovo più interessante fotografare il prima o il dopo di una situazione, raccontare quella condizione temporanea dell’accaduto, dell’azione appena svolta o in procinto di svolgersi. L’attesa, come sensazione che conferisce alle opere una dimensione sospesa, surreale, talvolta metafisica… Mi interessa l’assenza di avvenimenti in questi spazi, creare una tensione tra ciò che si vede e ciò che si immagina».
Che tipo di “viaggio” mentale vorresti che gli spettatori compissero con questo tuo lavoro?
«Ho sempre indagato lo scarto che c’è tra la dimensione reale e quella fittizia, tra il vero e il verosimile, perché dalla sovrapposizione di queste due dimensioni si genera quella della memoria. Attraverso il lavoro, mi piace creare situazioni artificiose, disorientanti, dove gli spazi fittizio-immaginari disturbano la percezione abituale, instaurando una relazione completamente nuova e immediata tra fenomeno visivo e osservatore, lasciando però a questi la libertà di attribuirne il senso».

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