«Il risultato alla fine, aggiunse Francesco,attirerà molte critiche; il suo schema funzionale sarà rivoltato come un calzino; si troveranno mille difetti e il ponte si dirà che è troppo costoso per quella funzione. Tuttavia spero che il risultato in generale avrà almeno il valore di una provocazione nel vuoto di idee e di rimpalli di responsabilità. Lo chiameremo COROPOLIS e forse un giorno chissà, se salteranno i mille divieti e regolamenti, qualcuno lo potrà vedere costruito. Tuttavia adesso è qui sul nostro tavolo con le nostre speranze.
E se fosse vero? chiese George. Sarebbe una passione fatta materia».
Il testo,tratto dal racconto Le Torri di pietra, suona come una dichiarazione di intenti che annuncia lo spirito delle quaranta tavole di “Coropolis-Utopia possibile”, il progetto, a firma di Nicola Pagliara, per la riqualificazione della zona di Coroglio, sede dei poli siderurgici prima dell’ILVA e poi dell’Italsider. L’iniziativa, presentata al Palazzo delle Arti di Napoli, coinvolge più ambiti. Affrontando un tema urgente di rilevanza sociale, si inserisce anche nel dibattito intorno alla dicotomia tra arte e architettura, oltre ad avere un’anima letteraria, racchiusa nelle pagine del racconto citato, redatto dallo stesso Pagliara contemporaneamente alla realizzazione del progetto architettonico.”Coropolis-Utopia possibile”prova a interrompere il circolo vizioso che ha visto il quartiere segnato da un immane accumulo di scorie tossiche, defraudato e abbandonato a se stesso. L’idea è quella di riabilitare l’area –compresa tra la collina di Posillipo e Bagnoli,una tra le più affascinanti del litorale flegreo, da cui è possibile ammirare le isole di Nisida, Ischia e Procida –per restituirla alla collettività. Un’utopia concreta, in cui le arti concorrono al cambiamento dei luoghi fisici e, soprattutto, incitano al rinnovamento dell’idea e dell’immagine, ormai sedimentate, di quegli spazi. Un lavoro realizzabile solo se «si superassero i bug culturali, istituzionali e burocratici che sottraggono l’area ai suoi abitanti», nelle parole di Pagliara. Sentiamo che cosa ha d’altro da dirci.
Qual è, secondo la sua esperienza, il rapporto che intercorre tra arte e architettura?
«L’architettura è una forma d’arte complessa più che completa. Racchiude moltissimi tipi di attività artigianali e artistiche. Se si intende per arte “il bello”, quello che Vitruvio chiamava la venustas, non ha niente a che vedere con l’architettura, mentre sono molto vicine per le altre due caratteristiche, la firmitas e l’utilitas, che sono fondamentali,soprattutto, per l’architettura. Facendo un salto di duemila anni, possiamo arrivare facilmente ad Hegel, quando si riscopre un presupposto importante nelle forme artistiche e cioè che quello che conta sono i contenuti, il significato e non il significante. Questo sta ad indicare che sia la buona ragione perché sia realizzata un’opera,che la sua buona tenuta, composta da materiali fisici e contenuti etici della forma, sono le cose fondamentali che accomunano l’architettura all’arte. Solo che,nel corso dei secoli, parte di questi fondamenti è stata stemperata e per lungo tempo l’arte si è identificata nel sublime».
Vuole dire che si è tenuto conto più dell’aspetto estetico che di quello artistico?
«Non va mai dimenticato che l’estetica, dopo Hegel, è considerata la ragione del contenuto. Nulla ha un valore estetico se non ha anche una sua buona ragione d’essere. L’architettura, all’inizio del ‘900, si è separata dalle forme artistiche pure, per così dire, e ha riacquistato i fondamenti della firmitas e dell’utilitas. Si sono costruite fabbriche molto belle, in questo senso. Capolavori d’arte che raggiungono l’armonia attraverso la forza, la stabilità dei materiali e un’eccellente funzionalità. È chiaro che oggi non possiamo fare più nulla che non sia necessariamente utile e ben fatto. Da questo viene la bellezza che è l’aspetto intrinseco del lavoro, non è uno degli elementi fondativi delle forme d’arte».
Ne è dunque la conseguenza. Oggi però mi sembra che si dia molto spazio all’estetica e molto meno all’utilitas.
«Ogni forma d’arte vive sull’inutile, ricopre una non funzione. In passato si era capito che valeva la consistenza, la qualità e la materia. Purtroppo si è perfettamente dimenticato il funzionalismo, altro aspetto di cui parla lo stesso Hegel, in cui la forma è legata alla sua funzione. Fino a qualche anno addietro, era la particolarità dei materiali e non delle forme a stupire, il sapiente uso di elementi che assicuravano stabilità nel tempo.Non riesco a pensare a nulla che non abbia alla base un profondo studio dei materiali.La serratura Yale,per esempio, non è meravigliosa come le serrature in ferro battuto che si producevano fino alla metà dell’Ottocento, ma Yale ha inventato un oggetto che ha una bella qualità estetica, realizzata con un ottimo materiale e che si presta ad una facile ripetitività di queste caratteristiche. La ripetitività è un’altra componente rilevante sia nell’arte che nell’architettura».
Penso alla riflessione di Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, ma anche su quanto la ripetizione, sia nel senso di serialità che di reiterazione, e l’innovazione vadano di pari passo.
«La ripetitività è la civiltà dell’arte oggi, senza perdere qualità nelle finalità e nella materia, un elemento che ha anche un suo valore estetico. Del resto, un ombrello è un oggetto riproducibile attorno al quale si può lavorare infinitamente, si può pensare a un manico d’osso, un bastone di un buon legno, una seta pregiata ma è, comunque, un sistema di facile utilizzo che ci copre dalla pioggia. Può avere moltissime varianti estetiche ma non viene mai meno alla sua funzionalità. Tornando a Benjamin, la fotografia è seriale eppure è l’occhio dell’anima, diversa dal dipinto per materiali e tecniche ma è,comunque,una forma d’arte, legata alla tecnologia, all’innovazione. Il design è un’altra forma d’arte legata alla riproducibilità, quello che conta è il prototipo con cui si possono realizzare innumerevoli pezzi della stessa qualità».
A proposito di qualità, quali sono le caratteristiche della sua città immaginata? Quando pensa a Coropolis pensa ad una città ecosostenibile?
«I materiali con i quali dovrebbe essere realizzata sono l’acciaio e il cristallo, per ogni unità abitativa è prevista una copertura non praticabile con accumulatori di energia, nella parte superiore del cono tutte le fasce del brise soleil hanno delle ali che sono pannelli solari, ogni costruzione è tagliata in due punti nei quali ci sono dei riciclatori di corrente. È ecosostenibile nel senso che è stata pensata per ridurre al massimo l’inquinamento: l’acciaio è il materiale più puro e grazie ai pannelli fotovoltaici e a una serie di sistemi per il risparmio energetico si raggiungerebbero ottimi risultati. Il progetto potrebbe consentire un’alta qualità della vita. È storicamente solido, ma allo stesso tempo esteticamente affascinante. È una città lucente».
Coropolis ricorda le città invisibili di Calvino. È un sogno che nasce dal desiderio di cambiare le città visibili?
«Sì, potrebbe essere una delle città invisibili o potrebbe contenerle tutte, eppure è un’idea semi-utopica, realmente edificabile. Contemporaneamente a questo lavoro ho scritto un racconto, quasi autobiografico, che si intitola Torri di pietra, il cui protagonista è un architetto che, come me, si è sempre sentito un po’ straniero in questa città. L’uomo torna a Napoli per seguire un lavoro e ritrova, su un banchetto di libri usati, un suo vecchio libro, quello che gli aprì gli occhi e la mente sull’architettura: Le città invisibili di Italo Calvino. È, dunque, un testo che mi ha sempre ispirato. Il racconto descrive Coropolis: una ipotesi di città forse difficile da vivere, proprio come le città di Calvino. È una città splendente, tutta in acciaio, dove il tempo non è lineare e possono accadere anche delle coincidenze come questa».
Nelle tavole presenti nella mostra al Pan, ho notato che disegna spesso punti di incontro per la collettività, delle agorà. Coropolis è una città democratica?
«Sì, tenuta insieme dai contatti civili e dall’umanità.In realtà, il centro occupa un terzo della superficie, il resto è tutto verde, piazze e giardini. Ci sono dieci grattacieli da centocinquanta metri, cento metri e cinquanta metri, immersi in un parco. Coropolis ha un’immagine lecorbusiana,che ricorda la Ville Radieuseema segue anche le indicazioni di Wright per il progetto del grattacielo alto un miglio, nell’Illinois, quello che avrebbe potuto contenere tutta Chicago. Infine, raccoglie le intuizioni di Loos,visibili nel disegno per il grattacielo del Chicago Tribune, una colonna dorica. Dove è chiaro che l’architettura ritorna al mondo classico, ma è altrettanto vero che, nello stesso periodo in cui Loos pensa a questo lavoro,circolavano le idee di Bresson e Tzara.L’architetto dunque usa il classicismo nello stesso modo con cui Duchamp decontestualizza e rifunzionalizza gli oggetti, ne cambia il senso. Coropolisè una sfida, potrebbe essere una polis greca, il sogno di un architetto greco ai nostri tempi, un Ictino contemporaneo che avrebbe la possibilità di utilizzare nuovi materiali come l’acciaio.Mi piacerebbe che fosse una nuova Atene».
Ilaria Tamburro