Categorie: Personaggi

L’Intervista/ Paolo Ventura

di - 21 Novembre 2014
A Paris Photo la pioggia scroscia sopra l’ossatura di ferro e vetro del Grand Palais, come sugli ombrelli aperti che riparano tanti omini grigi, illuminati da qualche bandiera rossa. Al silenzio mesto della seconda scena, però, non corrisponde affatto il brusìo che accompagna la nostra conversazione. Paolo Ventura (Milano 1968, vive e lavora a Milano) è tra gli artisti della galleria Flatland di Amsterdam che in occasione della 18.ma edizione della kermesse parigina propone Il funerale di un anarchico (2014) – esposto a FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma 2014 – insieme ad una selezione di Storie Brevi. La sequenza completa di dodici serie fotografiche (circa 60 immagini) è in mostra alla galleria del Cembalo di Roma (21 novembre 2014-24 gennaio 2015).
Quasi sempre l’autore è il protagonista delle sue storie sospese tra passato e futuro, in altre vediamo il fratello gemello, il figlio o la moglie Kim. Storie che Ventura costruisce da sé, creando dei set che traducono visivamente la sua immaginazione. “All’inizio cercavo delle immagini,” – spiega – “come le cerca un fotografo andando in giro per strada, come si è sempre fatto. Poi, dato che non riuscivo a trovare quello che cercavo, le ho prese all’interno, costruendole come si fa nel cinema.” In particolare la famiglia è punto di partenza e d’arrivo nei suoi racconti che giocano sugli ossimori, riproponendo – più o meno consapevolmente – dinamiche che appartengono alla sua infanzia. Un po’ giocoliere, un po’ mangiafuoco, funambolo o  domatore, Ventura entra ed esce dalla valigia, portando con sé il bene più prezioso: la libertà.
Dal 2000 ti dedichi esclusivamente a raccontare storie, costruendole. Anche nella fotografia di moda e pubblicitaria, che fanno parte della tua fase precedente, si trattava di costruire storie. Qual è il loro legame e come è avvenuto il passaggio?
‹‹C’è una connessione tra la fotografia di moda e quello che faccio adesso, perché anche la fotografia di moda é la costruzione di una storia in sei, otto, dieci, dodici pagine attraverso i vestiti, le location, quello che fa la modella. Almeno questo era il mio modo di vedere la moda. Per il resto sono mondi molto diversi, intanto perché il lavoro di moda é un lavoro di squadra. L’apporto del fotografo è importante quanto quello della modella, della truccatrice, della stylist e di chi impagina il giornale. Il mio lavoro di ora, invece, è solitario. Ho lasciato la moda anche per questo motivo. Quando si lavora in team le cose vanno bene se tutti hanno la stessa idea di quello che si fa, ma se uno dei meccanismi non funziona è un disastro. Ho passato dieci anni bellissimi in cui mi sono divertito e ho potuto fare tutto quello che volevo, perché quando ho iniziato a fotografare la moda era l’ambiente in cui ci si poteva esprimere più liberamente, ma poi é arrivato il momento di cambiare››.

Il passaggio è avvenuto quando vivevi a Milano o a New York? Mi chiedevo se in questa tua visione di un’Italia, a metà tra la realtà e l’immaginazione, abbia influito la distanza non solo temporale, ma anche geografica.
‹‹Le primissime foto le ho costruite nel 2000, a Milano. Piano piano ho abbandonato la moda, iniziando a costruire dei piccoli set. Poi ho deciso di andare negli Stati Uniti, ed è lì che ho cominciato a fare questo nuovo lavoro. Ma non credo che la distanza geografica sia importante. Ho già cambiato due o tre luoghi in cui vivere e ho notato che non hanno nessuna influenza sul mio lavoro. Certamente, quando si è lontani, cambia la predisposizione verso la madre patria. C’è un senso di nostalgia. Recentemente ho letto un libro molto bello sulla Grande Guerra in cui si racconta di come le persone che emigravano si portavano dietro un’idea d’Italia che poi veniva idealizzata. Ad esempio molti emigrati rientrarono dall’Argentina o dagli Stati Uniti per andare in guerra come volontari, con un senso patriottico che non avevano prima della partenza. È vero che la distanza crea un’idea e una nostalgia del Paese d’appartenenza che a volte è sorprendente. Certo io avevo nostalgia dell’Italia, lo ammetto. Ma non credo che ciò abbia influenzato il mio lavoro››.
A parte il Funerale dell’Anarchico che si ispira ad un periodo più vicino della nostra storia, le altre opere mi sembrano più datate.
‹‹Certamente non sono dell’attualità. È comunque un mondo immaginato, ma non mi interessa raccontare la contemporaneità. Un mondo che è del Novecento, ma potrebbe essere del futuro. È un mondo che non è legato a questo momento. Ma poi, cos’è questo momento? In certe parti dell’India si vive ancora come nel nostro ‘600; in certe zone d’Italia si vive come nel ‘900 e in certi posti a Tokyo nel 3000. È tutto relativo. In questo momento a Parigi è inverno, mentre a Buenos Aires è estate. Qual è la stagione? Io mi stacco rispetto al mondo contemporaneo perché mi aiuta ad essere più libero, quindi a raccontare quello che voglio senza pregiudiziali politiche e di attualità››.
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Spesso citi tua nonna e i suoi racconti. Quanto hanno influenzato sul tuo immaginario?
‹‹Penso che il nostro mondo immaginario si formi nei primi anni di vita, dopo si guarda sempre indietro. Ecco perché anche il luogo in cui ci si trova nel presente non ha nessuna influenza, come pure quello che stiamo facendo. Guardo sempre a dei mondi che mi sono costruito molti anni fa. È come una camera in cui nessuno entra più››.
Che significato ha per te l’autorappresentazione? Spesso oltre alla tua figura compare Andrea, tuo fratello gemello.
‹‹Il motivo principale della mia autorappresentazione è, banalmente, perché sono sempre disponibile. Poi, considerando che sono cresciuto con un gemello identico – quindi con una non identità, uno specchio che era scomodo – è stata anche l’occasione per affermare la mia identità. Prima non ero Paolo, ma uno dei gemelli. Anzi la maggior parte delle volte ero Andrea. Nelle mie immagini cambio fisionomia perché mi pitturo, mi metto i baffi, dipingo i capelli, indosso dei vestiti che non uso durante il giorno. In questi lavori finalmente, sono io e, comunque, sono diverso da lui. Non sono il doppio. E poi mio fratello non ha le orecchie gialle o il naso rosso. Quando c’è anche lui è per confondere e depistare, perché in realtà siamo sempre contraddittori, da un lato c’è una ricerca di individualità e dall’altro si tende a portare il partner con sé, ovunque, anche se poi lo si uccide. Io uccido spesso mio fratello!››
La pratica del disegno è la prima fase del lavoro, che prosegue con la costruzione del modellino, della scena, l’inserimento del personaggio, la polaroid e lo scatto finale. Passaggi molto definiti. Sembra quasi una contraddizione: da una parte la sospensione dell’immaginario e dall’altra una pratica molto razionale…
‹‹La polaroid, purtroppo, non c’è più! Comunque sì, sono passaggi molto definiti, perché quando si lavora con il nulla, con uno spazio vuoto, lo si deve riempire in qualche modo. E per farlo bisogna mettere dei punti, come si faceva una volta quando si disegnava mettendo i quattro punti e facendo la quadrettatura. Lo spazio vuoto, in qualche maniera, va limitato. Un conto è quello che si immagina e un altro quello che si deve mostrare, rendendolo visibile. Lì entra in gioco la costruzione, l’abilità manuale. Io ho visto che se la mia immagine è costruita dentro di me, è molto semplice renderla visibile. Corrisponde sempre a quello che voglio fare. Non è mai un compromesso. Quanto alla fotografia, quello che mi ha salvato è stato proprio crescere in una famiglia di persone che non sapevano nulla di fotografia e che disegnavano e basta. Infatti, ho due fratelli che fanno i pittori, un padre illustratore e una madre che colorava i disegni di mio padre. In casa la fotografia non esisteva, non c’erano libri di fotografia. Io ho fatto il fotografo perché non sapevo disegnare. Quindi è stata la nicchia che mi sono scelto, un po’ un rifugio in cui potermi esprimere senza sentirmi minacciato››.
La polaroid, che poi hai sostituito con il digitale, è determinante ai fini della scelta finale. Ti serve anche per mettere ordine?
‹‹Sì, per mettere ordine e costruire l’immagine da rendere visibile. Il disegno mi aiuta a capire dove mi devo fermare, la polaroid se quello che ho fatto va bene, se c’è spazio, equilibrio e tutto quello che voglio dire. La foto finale, invece, serve a testimoniare che in quel luogo ci sono stato veramente. La fotografia, infatti, ha ancora questo ruolo di testimonianza. Non voglio che il luogo sia finto, deve essere vero››.

Spesso i modellini sono realizzati in una scala piuttosto grande. La dimensione è importante nel tuo lavoro?
‹‹Mi servono modellini grandi e piccoli, perché così posso falsificare la prospettiva. Lavoro sempre su spazi limitati, tavoli su cui talvolta rappresento delle piazze, quindi la dimensione mi aiuta per giocare sull’illusione della prospettiva. Altre volte lavoro a grandezza naturale, dipingendo i fondali. Gioco con l’enorme e il piccolissimo, a seconda di quello di cui ho bisogno››.
Mangiafuoco, il funambolo, il giocoliere, il mago che fa sparire il bambino… sono personaggi ricorrenti. Quanto ti ritrovi in questi personaggi fuori dalle righe?
‹‹(Ride)… Non sono mago, né giocoliere. O forse sì. Sono tutti personaggi che hanno a che fare con mondi non reali. Hanno la capacità di rimanere intatti, come le monache, i preti, i Carabinieri in alta uniforme che sono sempre uguali da centocinquant’anni. Mi interessano molto i mondi che non cambiano. L’autorità dei luoghi e delle persone è dovuta anche al fatto che non cambiano. Il mangiafuoco è un’autorità sul mondo, perché fa quello che faceva nel Medioevo e forse anche prima. Non gli interessa quello che succede nel mondo. La sua attività è quella, come il suo immaginario. È molto più autorevole un mangiafuoco di un ingegnere elettronico che, magari, tra un anno dovrà cambiare per stare al passo con i tempi››.
Manuela De Leonardis
In Home page: Paolo Ventura a Paris Photo 2014 (foto  Manuela De Leonardis)

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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