Categorie: Personaggi

L’INTERVISTA/QIU ZHIJIE

di - 22 Febbraio 2016
Simboli che provengono da contesti diversi, che si ripetono nel tempo – ancora e ancora – testimoni del cammino della civiltà: il drago, i pesci, i libri, i fiori, il cibo, ma anche le torri, le piante stellari delle città-fortezza, i labirinti, le spade, le pistole: “fossili di ieri e di oggi”, come li definisce lo stesso Qiu Zhijie (Zhengzhou, provincia del Fujian, Cina 1969, vive e lavora tra Pechino e Hangzhou). L’artista,  che ha più volte partecipato alla Biennale di Venezia (2009 e 2015) e che nel 2015 è stato protagonista della personale “L’Unicorno e il Dragone” alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, è anche docente, scrittore d’arte e curatore di mostre (tra queste la prima mostra di videoarte in Cina nel 1996 e la Nona Biennale di Shanghai nel 2012). Qiu Zhijie parte da lontano per dar forma all’impegnativo progetto realizzato per la galleria Continua di San Gimignano. Racing against time (fino al 1 maggio) è un’appassionante percorso attraverso 47 opere su carta presentate come una sorta di scavo archeologico.
Partendo dalla massa informe vediamo poeticamente affiorare la Pangea e, via via intercettiamo natura, civiltà, nascita degli dei, procedendo verso un presente sempre più marcato lì dove si rivela il tema centrale della mostra: la lotta per il potere con le guerre che attribuiscono al più forte l’illusoria ambizione della sopravvivenza. «Le politiche delle dinastie possono essere diverse, la loro essenza è la stessa – scrive Qiu Zhijie  – mentre impongono tasse e balzelli esorbitanti al popolo, ecco che progettano strutture gigantesche come simboli di prosperità: i turgidi grappoli d’uva e le montagne di grano sono illusori come l’immagine di un dolce dipinto. Così tessiamo la nostra tela fatta di letteratura e bruciamo libri proibiti, e mettiamo a tacere la voce dell’opposizione; ci limitiamo a diffondere parole di felicità e di buon auspicio per incoraggiare gli animi; costruiamo templi e santuari per ingraziarci i fantasmi e le divinità».
La tecnica di tamponamento usata tradizionalmente nell’arte cinese per trasportare sulla carta iscrizioni e motivi grafici realizzati su altri supporti, acquisisce tridimensionalità attraverso la procedura manuale del rilievo. Il nero dell’inchiostro di china viene assorbito, restituendo una visione complessiva in cui ogni elemento ha la sua valenza di unicità, così come avviene con i lavori “bianchi” esposti alle spalle del palco dell’ex teatro-cinema. Anche in queste opere che s’ispirano ai rosoni di stucco che decorano i soffitti delle abitazioni europee (ma ricordano anche le torte nuziali) si rafforza il tema del gioco di potere, soprattutto quando è in atto un dialogo serrato tra quelli che per l’artista cinese rappresentano i due poli estremi: la torre di Babele e quella progettata da Tatlin come monumento alla Terza Internazionale.

“Correre contro il tempo”: già nel titolo della mostra sottintendi le contraddizioni su cui hai incentrato il tuo lavoro…
«Il titolo si riferisce al concetto di forma: la forma dell’impero, del potere, del sistema, dell’istituzione. Qualcosa che è cresciuto nel tempo e che, nell’immediato, è impossibile fermare. Solo il tempo può farlo. Correre contro il tempo è anche una metafora, da una parte si riferisce alla gente, al potere dell’attesa, all’idea di occupare lo spazio del futuro, mentre dall’altra implica l’idea che il tempo possa essere usato come arma».
Nella complessità dell’opera che definisci “sito archeologico” sembra essere presente anche un’idea di archivio. Sei d’accordo?
«Sì. Sia sul pavimento che sulle pareti ci sono strati di oggetti diversi che si riferiscono a periodi storici differenti, come in un sito archeologico. Oggetti che forniscono anche una serie di informazioni come in un archivio. Tutti gli oggetti che ho impresso nella carta – una bandiera, un’arma, una stella… – alludono, in particolare, all’investigazione del potere e a come le grandi potenze del passato si siano manifestate ovunque nel mondo».

In questo archivio, però, c’è posto anche per gli astronauti.
«Sì, è un sito archeologico che guarda al futuro, nel senso metaforico di occupazione dello spazio che, così, diventa un nuovo campo di battaglia».
L’uso del nero e del bianco deriva da un significato particolare che attribuisci a questi non colori?
«Il nero deriva dalla tradizione calligrafica, ma per me ha anche un significato filosofico – come del resto il bianco – perché mi permette di focalizzare la forma. L’inchiostro nero contiene tutti i colori. È come la fotografia in bianco e nero che alcune volte fornisce molte più informazioni delle fotografie a colori. Si hanno molti più ricordi quando si fotografa in bianco e nero, c’è un’atmosfera unica».
Qual è stato il punto di partenza della tua formazione artistica?
«Fin dall’infanzia ho studiato calligrafia e pittura ad inchiostro in una maniera veramente tradizionale. Il mio maestro, Zheng Yushi, mi faceva preparare l’inchiostro in silenzio – non si poteva parlare – e solo una volta che era stato preparato ci si esercitava nella calligrafia. La tradizione, per me, vuol dire tanto esercizio. Ora è cambiato molto il modo di studiare queste materie. In seguito ho imparato altri linguaggi artistici: performance, installazione, nuovi media. Ma, per me, non c’è grande differenza nell’essere un artista tradizionale o contemporaneo. Leonardo o Michelangelo oggi appartengono alla tradizione, ma ai loro tempi erano contemporanei. L’arte è arte. Però quando al giorno d’oggi parliamo di arte tradizionale ci riferiamo, normalmente, ad un’arte commerciale. Utilizzare elementi della tradizione, invece, è una cosa diversa».

La tradizione è anche un mezzo per mettere gli oggetti in connessione?
«L’intera installazione è come una mappa. La mappa di un impero con torri, porte, armi, bandiere… Sì, il progetto del pavimento (della galleria Continua – ndR) è concepito proprio come una mappa. Cos’è una mappa? È il cercare di capire le relazioni tra le cose, gli oggetti. Penso che la gente ricorra alla mappa prima di tutto per cercare di capire com’è costruito il mondo intero: il paradiso, l’inferno, l’aria, la civilizzazione, la natura. Poi ci sono gli scopi pratici: la mappa delle strade, l’atlante geografico… Fondamentalmente la gente realizza mappe per conoscere i confini del potere».
Nel lavoro è presente anche una certa ironia…
«Ironia? Sì un certo humor… quando, ad esempio, faccio diventare Kali – la divinità indù – un granchio, che poi diventa un’astronave di Guerre Stellari. Questo è possibile quando si ha una certa conoscenza della storia. Allora ci si accorge che le persone fanno spesso le stesse cose stupide, ancora e ancora».
Hai mai avuto problemi di censura nel tuo Paese?
«Certo che ne ho avuti! Del resto penso che ovunque nel mondo, in Cina come negli Stati Uniti o in Italia, ci siano tabù politici e censura. Ma il lavoro dell’artista non è quello di scontrarsi con la censura, piuttosto di aggirarla. Si possono sempre trovare altre vie per dire quello che si vuole».
Manuela De Leonardis
foto in alto e in home page di Manuela De Leonardis

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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