10 gennaio 2016

L’Intervista/Regina Josè Galindo

 
L’ARTE È IL CAMPO ASSOLUTO DELLA LIBERTÀ
È nel nostro Paese con una mostra e tornerà per il rito della Focara in Puglia. Qui l'artista ci racconta il suo lavoro

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Vivere sulla propria pelle drammi collettivi, rivelare memorie e tradizioni locali nell’universalità del linguaggio artistico, fare del proprio corpo lo strumento di espressione privilegiato, tutto questo è Regina Josè Galindo (Città del Guatemala, 1974), performer tra le più raffinate e sensazionali del panorama artistico internazionale L’artista viene spesso in Italia. Fino al 13 gennaio è alla Prometeo gallery di Milano con una mostra che torna su uno dei suoi temi più sentiti: la guerra in Guatemala, la strategia militare che colpì una delle coltivazioni più popolari, il mais. 
E in Italia Galindo tornerà molto presto. Protagonista, insieme a Gianfranco Baruchello, della prossima Focara di Novoli, in programma tra il 16 e il 18 gennaio 2016. Per l’occasione, guidata dalla curatela di Giacomo Zaza, presenterà in anteprima mondiale Nuovo corpo, un’azione performativa pensata e realizzata appositamente per lo storico evento salentino. Uomini e donne costruiranno attorno al suo esile corpo un abito di fascine, al contempo strumento di difesa e manifestazione di fierezza, un omaggio alla donna vittima ad ogni latitudine di maltrattamenti e pregiudizi. L’artista s’immedesima nella Focara, ne recupera la forma, riflettendo sull’alterità e offrendo allo straniero una fattiva possibilità di essere accolto e integrato. Al tempo stesso si riallaccia all’azione purificatrice del fuoco, antidoto ai soprusi e imperitura affermazione di dignità e consapevolezza del vivere. Regina Galindo crea e vive ogni sua performance come un processo catartico di interiorizzazione della storia e unione al tutto. L’abbiamo incontrata per porle alcune domande a riguardo.
Regina José Galindo, Estoy Viva, Pac Milano
Il tuo è un lavoro socialmente impegnato, attento ai diritti umani, frutto di una sincera e profonda riflessione sul Guatemala, tua terra di origine, ma anche sui contesti territoriali sui quali sei invitata ad operare. Ma come nasce una tua performance? 
«Ogni performance ha una propria storia. Ci sono performance che nascono in maniera intuitiva e sono generalmente quelle che penso in Guatemala che hanno a che vedere con la mia storia, con fatti che mi disturbano, con cosa che hanno molto a che vedere con il visuale e l’emozionale. I lavori che faccio all’estero sono lavori che nascono da approfondite ricerche, da letture sulla storia dei paesi che mi ospitano. Cerco di avvicinarmi alla storia del Paese, colgo gli aspetti che più mi interessano, i punti di contatto o le comunanze con il Guatemala. Sono processi differenti per ogni opera».
Nei tuoi lavori performativi c’è qualcosa di autobiografico?
«Mai. In nessuna delle mie opere c’è un lato biografico. Nel mio lavoro poetico sì. Quasi tutto il mio lavoro poetico mi riguarda, tranne alcune poesie che hanno a che fare più specificatamente con il mio Paese. Però questa libertà di parlare di me stessa me lo permetto solo nella poesia, perché la poesia è un processo differente. Nella poesia scrivo sotto l’influsso di un preciso stato emozionale, quando scrivo un impulso lo faccio d’impulso mentre quando ho un’idea visuale la porto a termine solo dopo aver letto, pensato e ricercato molto. Il mio processo poetico è più emozionale, ma non il processo dell’arte visuale, che non racconta mai la mia storia. Credo che al mondo non interessi la storia personale di nessuno. È importante che l’arte sia universale. Se si fermasse alla storia personale sarebbe un lavoro che si potrebbe fare con un terapista».
Regina José Galindo, Alud (Salonicco, 2011)
Che ruolo ha il pubblico nelle tue opere? Quando progetti una performance come pensi di coinvolgerlo? 
«Dipende dall’opera. In alcune il pubblico è spettatore, in altre è attore. Ci sono opere pensate appositamente affinché il pubblico interagisca. Ad esempio in Alud (Salonicco, 2011) in cui il mio corpo giace nudo e sporco su una tavola mentre accanto il getto d’acqua scorre. L’opera funziona solo se il pubblico è pronto a relazionarsi con me. Tutti gli elementi sono predisposti affinché lo faccia, affinché si avvicini e mi pulisca scoprendomi il corpo e il volto. O in Breaking the ice (Oslo, 2008) in cui sono nuda in una stanza con una temperatura di zero gradi. Ai miei piedi giacciono i vestiti. La speranza è che qualcuno li prenda e inizi a coprirmi. L’idea di fondo sulla quale ho lavorato è che generalmente si considera il pubblico nordico come gente fredda, difficilmente propensa a relazionarsi con uno sconosciuto. L’intento era quello di spingerlo a farlo, a comportarsi empaticamente con me senza dirglielo. È in verità il pubblico norvegese si è confermato un pubblico “nordico”, dal momento che ha atteso quarantacinque minuti prima di iniziare a vestirmi. Però in quel caso era necessario che pubblico partecipasse. O ancora Caminos (Antigua Guatemala, 2013) in cui Il mio corpo, nascosto da un cespuglio, è legato a quattro fili condotti nello spazio circostante da altrettante donne. I fili realizzano tracciati per le strade cittadine e il pubblico deve seguirli per potermi ritrovare. L’intento è quello di obbligarlo a giungere in un punto, in un campo abbandonato dove giace il mio corpo. In altre opere invece non è necessario che il pubblico interagisca, in cui si prevede e si promuove una reazione emozionale del pubblico ma non partecipativa. Per esempio in Raices (Palermo, 2015) la reazione del pubblico è emozionale ma è anche partecipativa riguardo al contesto, dal momento che è indotto a girare nel giardino botanico per trovare i vari performer dislocati tra le differenti piante. Per questo non c’erano segnali sulla collocazione dei performer o indicazioni su quale tragitto seguire». 
Regina José Galindo, Desierto 2015
Tu vivi e lavori a San Cristobal el Bajo, una piccola cittadina a pochi chilometri da Città del Guatemala, dove sei nata. Pensi che un artista debba vivere in un “centro” dell’arte contemporanea o possa vivere e avere successo anche lontano dai centri del mercato? 
«Nulla è scritto. L’arte è il campo assoluto della libertà per questo può nascere e svilupparsi ovunque. Non dipende dalle caratteristiche che reggono tutto il sistema economico del mondo. L’arte è una possibilità di salvezza e per questo poco importa che tu stia in Guatemala o in Giappone, a Taiwan o negli Stati Uniti. Ciò che importa veramente sono le idee». 
Hai esibito i tuoi lavori in molte città italiane. Quale è il tuo rapporto con il nostro Paese?
«Suppongo che in un’altra vita sia stata italiana. Quando vengo in Italia sto bene. Se sono triste vengo in Italia per sentirmi meglio. Sono stata accolta bene in ogni città: Lucca, Milano, Venezia, Torino, Roma, Palermo. Ovunque la reazione del pubblico al mio lavoro è stata molto positiva. Lo stare in Italia per me è sempre una grande esperienza. Quando torno in Guatemala torno alla realtà. Per me sono due realtà differenti ma parallele». 
Pensi che sussistano differenze tra la ricerca artistica in Europa e quella nei paesi latino-americani?
«Non credo si possa parlare di differenze dal momento che oggi, con internet, in qualunque parte del mondo di può avere libero accesso alle informazioni. Spesso si crede che tutta la ricerca artistica in America Latina abbia una declinazione politica. Invece ci sono artisti che portano avanti una ricerca puramente formale che ha la stessa validità di quella condotta dagli artisti europei. Queste presunte differenze sono il frutto di stereotipi, di gerarchie intellettuali alle quali bisogna sfuggire. D’altro canto è pur vero che gli artisti latino-americani hanno un bagaglio sociale, politico ed economico che gli artisti europei non hanno e questo naturalmente influisce sulla loro arte. Naturalmente c’è una contaminazione tra Europa e America Latina, ma quest’ultima ha un bagaglio storico che va al di là della colonizzazione, un vissuto che non s’incontra in nessuna altra parte del mondo. C’è una storia in America Latina precedente alla conquista, alla colonizzazione. Una storia che resta lì e che non si cancella».
Carmelo Cipriani

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