Categorie: Personaggi

L’INTERVISTA/ RENATA BOERO

di - 5 Giugno 2019
Renata Boero racconta la sua ricerca artistica, poetica e va oltre la materia e i limiti del segno, all’origine
della germinazione dell’opera d’arte.
Cosa si cela dietro la lettera K del titolo “Kromo-Kronos” della sua mostra personale al Museo del Novecento a Milano e quali lavori espone?
«Come ho già avuto modo di spiegare K e K sono le due polarità entro le quali si sviluppa il mio lavoro.
Il mio agire è affidato ad una sorta di architettura organica che sperimenta procedimenti di trasformazione metabolica dei materiali, kourkoum, cocciniglia, ratania e altri, tutti a forte valenza simbolica, tramite la partecipazione dell’elemento naturale secondo una precisa temporalità.
Qui al Museo sono esposte una serie di lavori, a partire dai Cromogrammi della prima metà degli anni 60, passando per le Germinazioni e i “fiori di carta”, fino alle più recenti ctoniografie».
Lei è nata a Genova, ha trascorso l’infanzia a Torino, ha studiato in Svizzera, e dagli anni’80 vive a Milano, poi il viaggio in Africa nel 1995 l’ha folgorata. Quando si è concentrate sulla corrispondenza tra segno e colore attraverso materiali organici?
«Immediatamente dopo la parentesi “figurativa” degli anni’ 50 ho lavorato per definire un linguaggio che mi permettesse di riconvocare la natura, ovviamente non in senso descrittivo o rappresentativo, ma piuttosto con l’insurrezione del “magico”, da qui la scelta dei “miei” materiali».
Quando ha iniziato la serie di Cronogrammi, opere su tela in cui mescola organici con pigmenti naturali, in cui manualità e ricerca cromatica e materica visualizzano processi di tensione spirituale?
«Fondamentale è stata l’esperienza nel gabinetto di restauro di Palazzo Rosso a Genova, dove allora, si parla degli anni 50, lavoravo come assistente della direttrice Caterina Marcenaro. Dovendo risolvere il restauro di un antico arazzo, inizio a studiarne i pigmenti naturali. Fu una vera e propria rivelazione. Da lì ho iniziato una febbrile ricerca che mi ha condotto lungo le tappe di un percorso che mi ha fatto incontrare gli elementi primari con i quali lavoro».
Renata Boero, Museo del 900, exhibition view, ph. Anna Positano
Segnico, gestuale e organico, incastri tra line verticali e orizzontale, questi in sintesi sono gli elementi fondamentali del suo processo creativo, in quali cicli di opere si riconoscono più chiaramente?
«Direi che sostanzialmente le componenti essenziali si ritrovano in tutte le declinazioni delle mie opere, in fondo, è come se fossero frammenti di un unico infinito racconto».
Nel suo lavoro ha inciso l’Arte povera, come?
«Allora abbiamo tutti partecipato dell’euforia libertaria che portava con se istanze di decostruzione linguistiche e formali, la necessità, anche fisica, di “uscire dal quadro”. Ma aldilà del bouillon de culture comune, i nostri percorsi non si sono incrociati».
Negli anni Sessanta per un’artista donna, indipendente, al di fuori dì gruppi o movimenti era più difficile trovare opportunità espressive, come ha trovato l’energia per non tradire la sua scelta coraggiosa?
«Ero molto, molto determinata e, evidentemente, questa mia fermezza “arrivava” anche agli altri. Non ho incontrato maggiori difficoltà rispetto ai miei compagni di strada. Piuttosto dopo, quando si è trattato di creare sinergie e connessioni, la mia propensione individualistica, l’essere refrattaria agli intruppamenti, mi ha reso la vita sicuramente più complicata. I critici, poi, e questo vale ancora oggi, un po’ per esigenze comunicative, un po’ perché amano piegare la lettura dei lavori alle loro teorie, amano incasellare, classificare, e questo, a volte, per un cane sciolto come me può essere un problema».
Quanto hanno inciso nel suo lavoro gli studi umanistici d’indirizzo junghiano e perché?
«Certo, l’incontro con il mondo junghiano è stato fondamentale. Il mondo dei simboli, il concetto di archetipo, le radici, intese come natura invisibile della vita, sono elementi fondanti del mio lavoro. Non a caso ho scelto “materiali di natura” per il mio fare».
È vero che fu Emilio Scanavino a consigliarla di intraprendere la carriera artistica, in che anni?
«Mah, non è andata proprio così. Intorno alla metà degli anni 50, io, Gio Rossi, purtroppo recentemente scomparso, Gibbe De Andreis e un altro talentuoso amico mancato giovanissimo, un po’ come “quattro amici al bar” formavamo un piccolo cenacolo di preferiti da Emilio Scanavino. Ricordo sempre con piacere quel tempo di formazione. Scanavino, carismatico e ruvido di carattere, esercitava una grande influenza su di noi, ci spronava a cercare le motivazioni delle nostre scelte, a trovare la chiave dei nostri talenti. Furono anni bellissimi e intensi, ricchi di incontri importanti. In quel tempo Genova era un concentrato di energie e cervelli. Nel salotto di Enrica Basevi ci incontravamo con Aldo Trionfo, uno dei fondatori della Borsa di Arlecchino, Lele Luzzati, un giovanissimo e non ancora famoso Paolo Villaggio e tanti altri importanti personaggi. Si rideva e si imparava. Bei tempi!».
Renata Boero, Museo del 900, exhibition view, ph. Anna Positano
Lei è una indomabile viaggiatrice, artista di cultura e formazione internazionale: la conoscenza della cultura orientale e pratiche di meditazione hanno influenzato il suo lavoro? Come e perché?
«Durante gli anni di collegio in Svizzera ho iniziato a praticare yoga, inizialmente per contenere e disciplinare la grande energia che avevo e che mi disorientava. Col tempo, continuando a praticarlo, si è trasformato in un abito mentale che mi aiuta a stabilire una buona armonia con la vita è con le cose che faccio».
Lei è tra le poche artiste donne della sua generazione a non aver cavalcato l’onda del femminismo e relative pratiche “uterine” perché?
«Un tempo si diceva, l’art n’a pas de sexe. E, in fondo, è pure vero. Ho sempre avuto la presunzione di misurarmi con gli altri, quindi, principalmente con il genere maschile.  Mi piace ” fare a pugni”, non ho mai considerato i maschi superiori in quanto tali, vediamo chi è più bravo, questo è il mio modo di essere femminista. Naturalmente non sono stata insensibile alle tematiche sollevate dai movimenti di rivendicazione femminile, ma ho sempre pensato che fosse il lavoro a comandare. Se è buono, se regge il confronto con altri e con lo spazio. Il medico deve essere bravo, saper curare, a prescindere dal genere. Ricordo Gina Pane con la quale mi sono incrociata in alcune occasioni, affrontava certo tematiche di genere, ma con una forza, una intelligenza e una determinazione straordinaria, che andavano oltre la mera rivendicazione politica».
Sinceramente cosa pensa della discriminazione sessuale dell’arte?
«Basta guardarsi intorno per accorgersi che le artiste sono in assoluto molto più numerose e protagoniste di qualche decennio or sono. Prima eravamo relativamente poche e si faticava per farsi largo, ma detto questo, non ho mai dedicato molto tempo a sentirmi discriminata. Dopo, quando il mercato ha fatto irruzione sulla scena, lì si è avvertito il pregiudizio. Poi anche questo sentimento è andato scemando, ci sono molte artiste che raggiungono quotazioni considerevoli, anche se ancora molto distanti dai record maschili».
I suoi Cromogrammi trasudano di trascendenza, anche per le dimensioni, sembrano sindoni di segni ancestrali appartenenti all’inconscio collettivo, quasi pittogrammi in cui gesto e materia coincidono, mi
sbaglio?
«Grazie! No, non si sbaglia. Mi fa piacere che le arrivi quest’emozione, vuol dire che sono stata brava».
Renata Boero, Museo del 900, exhibition view, ph. Anna Positano
Possiamo dire che nel suo lavoro c’è un non so che di rituale attraverso tessere come frammenti di un tempo infinito, nel processo di realizzazione dell’opera e trasfigurazione della materia?
«Eh, quanta roba! Posso dirle che i materiali di cui mi avvalgo sono “vivi”. Una componente “rituale” è già insita nelle radici e lo scopo che mi prefiggo è quello di trasmettere una sensazione di atemporalità».
Lei è metodica nel suo lavoro, come nasce un’opera e quando la considera compiuta?
«Nel tempo ho ovviamente acquisto una metodologia, una prassi direi quotidiana. Capita, ma è piuttosto raro che passino uno o più giorni senza che mi dedichi alla mia cucina. Mi è molto chiaro quando è il momento di fermarsi, quando l’opera ha una sua vita, una sua autonomia».
Ascolta musica quando lavora, oppure preferisce il silenzio?
«Dipende dalle fasi, nel momento in cui sono concentrata prediligo il silenzio».
Ha mai lavorato all’aria aperta? Se si quando e dove?
«Sì, quando ero ragazzina mi piaceva lavorare en plein air, col cavalletto. Era divertente».
Quale mostra o opera d’arte di recente l’hanno emozionata?
«La mia, scherzo!!! Ritrovare Antonello da Messina è un bel pugno, quei ritratti pasoliniani bucano, ti colpiscono appena ne incroci lo sguardo. Devo dire, poi, che ogni volta che mi capita di andare all’HangarBicocca butto sempre un occhio alle torri di Anselm Kiefer, un gran bel vedere».
Se dovesse associare libri ai suoi Cronogrammi o Germinazioni quali autori sceglierebbe?
«Sicuramente Claude Lévi-Strauss e Aby Warburg».
Lei ha insegnato, ma secondo lei l’arte si può insegnare?
«Non saprei. Certo, gli incontri possono determinare delle svolte nella vita delle persone. Sarà un po’ old style, ma penso che un po’ di predisposizione debba esserci».
Cosa consiglierebbe di fare a un giovane artista che si avventura lungo le sue tracce ?
«Di non seguirle. Come gli scout indiani, le tracce si trovano da soli».
Jacqueline Ceresoli

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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