Categorie: Personaggi

L’intervista/ Sara Piccinini

di - 5 Marzo 2019
Per la prima volta dopo 10 anni dieci sale del secondo piano della collezione permanente della Collezione Maramotti di Reggio Emilia sono state riallestite: i progetti di Enoc Perez (2008), Gert & Uwe Tobias (2009), Jacob Kassay (2010), Krištof Kintera (2017), Jules de Balincourt (2012), Alessandro Pessoli (2011), Evgeny Antufiev (2013), Thomas Scheibitz (2011), Chantal Joffe e Alessandra Ariatti (2014) dallo scorso week end sono diventati parte non solo del percorso del museo, ma anche di un altro pensiero rispetto alla messa in scena di progetti che hanno segnato uno sviluppo nella ricerca degli stessi artisti (all’epoca della produzione) e che successivamente sono entrate a far parte del patrimonio.
Ne abbiamo discusso con la coordinatrice Sara Piccinini.
A proposito del concetto di ripetizione differente, parafrasando le parole dello scrittore e curatore André Lepecki “Not as before, but again”, è come se con questo “Rehang” – riallestimento ci sia una sorta ri-messa in scena, ri-creazione di un precedente display, di precedenti display su piccola scala per ripensare al “corpo”, all’archivio e quindi alla memoria della Collezione Maramotti “non come prima, ma semplicemente di nuovo”. Che cosa ne pensi?
«Credo che il tuo pensiero sia centrato. Si tratta di condividere con il pubblico una riflessione sulla Collezione dopo anni di attività. Nasce dal desiderio di porre un segno di interpunzione lungo il percorso, per renderne più chiaro il senso, metterne in evidenza le parti e connettere con continuità una fase iniziale con il presente e il futuro. È anche interessante il tuo riferimento al “corpo” della Collezione, che include e vive di diversi nuclei e organi; a questo fa riferimento anche la mostra di materiali dei nostri Archivi (opere, documenti, libri) che apriremo in concomitanza con il nuovo allestimento delle sale del secondo piano. Prendendo in prestito le parole di Evgeny Antufiev (uno degli artisti che presentiamo con il Rehang, sia con una sala dell’esposizione permanente sia nella mostra d’archivio): “Il corpo diventa permeabile, morbido, si avvolge di oggetti e di sensi, come i molluschi fanno con le perle. Mossi da un forte desiderio, è possibile estrarre questi oggetti che brillano di luce perlacea […] il compito non consiste nell’estrarre i singoli organi, ma nel sezionare il corpo e nel rovesciarlo come un guanto affinché tutto il contenuto del microcosmo si riveli al mondo esterno. […] Una parola, un concetto, qualsiasi cosa, possono essere materiali. L’artista può inglobare tutto questo anche nel proprio corpo. […] Tutta la vita è dedicata alla ricerca di connessioni misteriose, non è possibile scegliere alla cieca. I materiali devono possedere corrispondenze interne”. Questi frammenti, alla base dello statement di Antufiev per il suo progetto del 2013 e riferiti all’artista stesso, al suo ri-mettere al mondo un intero universo (parafrasando uno dei più grandi generatori di mondi dell’arte contemporanea), possono offrire una lettura suggestiva anche sul corpo articolato della Collezione».
Evgeny Antufiev Dalla mostra Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials, 2013 Collezione Maramotti, Reggio Emilia, 2019 Ph. Dario Lasagni
Per la prima volta dall’apertura al pubblico della Collezione Maramotti si è sentita l’urgenza di riallestire, in questo specifico caso di allargare, di formattare per includere progetti emblematici già esposti e immagazzinare nuovi dati. Come è nato e come si è svolto questo processo?
«Abbiamo effettivamente sostituito le opere delle ultime dieci sale dell’esposizione permanente, al secondo piano, con una serie di mostre personali di Perez, Gert & Uwe Tobias, Kassay, Kintera, de Balincourt, Pessoli, Antufiev, Scheibitz, Joffe, Ariatti. A ognuno degli artisti è stata dedicata un’intera sala, che ripropone in modo coerente ciò che era stato concepito per stare insieme in un progetto. In alcuni casi abbiamo dovuto rivedere gli allestimenti per ragioni di spazio, abbiamo coinvolto gli artisti per ripensare e adattare i progetti alle diverse sale; abbiamo ri-invitato qui Kintera, Antufiev e i gemelli Tobias, con i loro assistenti, per ragionare e lavorare insieme nei loro spazi. Il coinvolgimento degli artisti anche negli aspetti di presentazione e valorizzazione del lavoro è una costante per noi. I progetti nascono da incontri e dialoghi, si sviluppano in modo organico e naturale, prendono forma attraverso il contributo di diversi attanti (i collezionisti, lo staff della Collezione), con l’artista al centro».
Credo che “Rehang” contenga in nuce diverse temporalità. Rappresenta una rilettura del passato della Collezione Maramotti e il suo completamento (interpretazione e mutazione), una forma di memoria e conservazione e, spontaneamente, una rimessa in azione di qualcosa di inespresso che appartiene ad ogni singola opera, creando nuovi scenari, possibilità, interpretazioni e interazioni. In questa cornice si inserisce Rehang: Archives, una piccola mostra temporanea di documenti, libri, lavori, oggetti dagli archivi e dalla biblioteca della Collezione, che ha molteplici obiettivi. Ce ne puoi parlare?
«Rehang: Archives era nata, nella sua idea iniziale, come una piccola mostra di materiali librari rari provenienti dalla nostra Biblioteca. In realtà, con uno sviluppo molto rapido e coinvolgente, siamo giunti a una mostra espansa, organizzata su quattro sale, con oggetti da tutti i nostri archivi, quindi libri, ma anche documenti in senso ampio (bozzetti, lettere, fotografie, video…) e opere. Gli artisti presentati qui (Claudio Parmiggiani, Peter Halley, Barry X Ball, Jason Dodge, Vito Acconci, Giulio Paolini, Enzo Cucchi, Evgeny Antufiev, Gert & Uwe Tobias, Krištof Kintera) hanno tutti opere esposte in permanenza in Collezione – o, nel caso di Dodge e della sua opera-installazione A permanently open window, vicino alla Collezione. La mostra è pensata come un viaggio attraverso le costellazioni di elementi che ruotano intorno all’opera d’arte: le ispirazioni, le radici, l’opera prima dell’opera, ma anche dopo, la condivisione, la sua vita in rapporto col pubblico, le sue proliferazioni. Un’immersione nel processo creativo degli artisti. Ad esempio in una sala della mostra, che abbiamo intitolato Architectural Appropriations, troviamo artisti di diverse generazioni che si sono confrontati in modi differenti con l’architettura e lo spazio. Dodge, che nel 2013 è stato invitato a concepire un’opera permanente in un edificio in corso di ristrutturazione poco distante dalla Collezione e ha lavorato sulla vecchia torre elettrica. Barry X Ball, con le sue ispirazioni al ponte di Brooklyn e al Johnson Wax Building (ora Uffici S.C. Johnson) di Frank Loyd Wright per il suo Matthew Barney, visibile nell’open space del secondo piano della Collezione. Così come le opere esposte in permanenza di Giulio Paolini e Vito Acconci, sviluppate in stretta relazione e articolate intorno allo spazio della galleria».
Thomas Scheibitz Dalla mostra Il fiume e le sue fonti, 2011 Collezione Maramotti, Reggio Emilia, 2019 Ph. Dario Lasagni
Mi sembra che i progetti scelti per il riallestimento, che coprono quasi un decennio di programmazione espositiva della Collezione Maramotti (2008-2017), avvalorino la riflessione sulla storia e la Mission della Collezione e sostengano il discorso del “Reenactment” dell’archivio. Per citare due estremi fondanti, sia il primo progetto esposto nel 2008 nella Pattern Room della Collezione “Casa Malaparte” di Enoc Perez, che Systemus Postnaturalis di Krištof Kintera presentato nel 2017, parlano di stratificazione, sedimenti e immagini sintomatiche a confronto (notte/giorno, pre/post, avanti/indietro) e possono essere attraversati, scavati o percorsi. In realtà, ciascuna delle opere selezionate entra organicamente in risonanza con le altre (Jules de Balincourt, Parallel Universe) per restituire (Jacob Kassay, Untitled), dare un senso di continuità o reinventare (Alessandro Pessoli) il patrimonio artistico/archivistico (Thomas Scheibitz) della Collezione Maramotti. Quali sono stati i criteri di selezione per le opere di “Rehang”?
«La selezione è stata guidata da diverse motivazioni: il gusto dei collezionisti, la continuità con il resto del percorso della permanente (principalmente focalizzato sulla pittura), le compatibilità della successione di artisti e opere. Inoltre, come risulta chiaro dalle date dei vari progetti, c’è stata una scelta relativa soprattutto ai primi anni di apertura: tranne Kintera, sono tutte mostre che abbiamo realizzato fra il 2008 e il 2014. Quindi, anche se in modo forse non troppo rigido o cosciente, questo “aggiornamento” del percorso rappresenta di fatto una prosecuzione lineare e cronologica dello sviluppo della Collezione, che non escludo possa essere ulteriormente rinnovato tra qualche anno».
Pensando alle due tipologie di ritratto presentate da Chantal Joffe e Alessandra Ariatti, “Rehang” potrebbe rappresentare una fotografia della Collezione Maramotti complessa, che ammette più significati, in cui i dettagli si fondono in unico flusso e insieme precisa, realistica e lenta così da accogliere lo sguardo trasformativo dello spettatore?
«Certamente lo sguardo dello spettatore e il contatto diretto con le opere sono al centro dell’esperienza estetica che cerchiamo di proporre nella visita della Collezione. Per questo, durante le visite alla permanente, sempre accompagnate, sono fornite, di base, solo le informazioni essenziali e non guide di tipo storico-critico. E per questo non esiste un catalogo della Collezione e non abbiamo audioguide. Ognuno è invitato a entrare in modo attivo e individuale in rapporto con le opere, seguendo diversi “ganci” emozionali o razionali, esplorando in profondità ciò da cui è più affascinato, riconoscendo le (e riconoscendosi nelle) proprie affinità, o lasciandosi immergere nell’atmosfera degli spazi della Collezione e nei campi – visivi, espressivi, concettuali, magnetici – delle immagini».
Petra Chiodi

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