Categorie: Personaggi

L’INTERVISTA/ SHADI GHADIRIAN |

di - 28 Maggio 2015
Giovani donne che tessono una ragnatela, assorte nel loro lavoro, danno prevalentemente le spalle all’osservatore. L’ago è nelle loro mani, ma il confine tra la storia che tessono e quella che vivono può essere una barriera complessa. Procede così Shadi Ghadirian (Teheran 1974, vive e lavora a Teheran) – tra le fotografe iraniane più famose a livello internazionale – nel raccontare dall’interno le contraddizioni della società a cui appartiene. In “The Others me”, curata da Silvia Cirelli, da Officine dell’Immagine a Milano (fino al 21 giugno), ripercorriamo con Ghadirian le tappe del suo lavoro, iniziato con la celeberrima serie Qajar (1998), entrata nelle collezioni dei più grandi musei del mondo, tra cui il Victoria & Albert Museum di Londra e il Museum of Fine Arts di Boston, fino a Miss Butterfly (2011). L’artista che partecipa anche alla 56. Biennale di Venezia, nella collettiva The Great Game, padiglione dell’Iran, a proposito dell’ironia afferma: «La nostra vita è così. Prova ad essere una donna iraniana che vive in Iran. Da quando nasciamo siamo abituate ad essere doppie, sotto il tetto della casa siamo noi, fuori siamo altre. È questo che ci porta ad usare l’ironia».
Nelle tue storie che spesso non escono dalla tua casa a Teheran, qual è il rapporto tra il reale e la dimensione metaforica?
«All’università di Teheran, dove ho studiato fotografia, ci hanno insegnato ad avere un immaginario rispetto a quello che succedeva intorno a noi, e a coglierlo in una fotografia. Ho imparato a mettere in pratica questo insegnamento – che è diventato il mio hobby – cominciando ad immaginare la mia vita stessa. Dopo quindici anni che fotografo, voltandomi indietro è come se vedessi uno specchio in cui mi rifletto».

Al centro di tutto il tuo lavoro c’è una riflessione sulla condizione della donna in relazione alla società iraniana. In Qajar e Miss Butterfly, che rappresentano in termini cronologici i due estremi della tua produzione, ti ispiri ad una memoria che è visiva (fotografie antiche) e letteraria (favola della tradizione iraniana), mentre però nella prima c’è anche molta ironia nell’accostare oggetti del contemporaneo (lettore Cd, aspirapolvere, occhiali da sole…), la seconda è attraversata da un silenzio opprimente. C’è una complicità da parte delle donne iraniane nel prendere parte alla tessitura della ragnatela che ne ostacola la libertà?
«Penso che quest’idea sia prevalentemente occidentale. Noi non facciamo altro che vivere all’interno di quella che è la nostra vita reale, cercando semplicemente il nostro modo di vivere. Una frase che amo ripetere è che Teheran, e in generale l’Iran, danno l’idea di essere piuttosto grigi, ma in realtà dietro questa tenda c’è un mondo colorato e pieno di vita».
Ha un che di nostalgico l’utilizzo del bianco e nero in Miss Butterfly, oppure è una scelta determinante nel rafforzarne esteticamente il valore concettuale?
«Quando ho realizzato questa serie in Iran eravamo sotto elezione. La gente scendeva in strada per manifestare, non c’era speranza. Anch’io non riuscivo a vedere nulla che non fosse in bianco e nero».
Cosa ti ha spinto ai tempi della formazione universitaria a scegliere il linguaggio fotografico come mezzo con cui dar voce al tuo mondo interiore?
«Per sbaglio! (ride). A scuola non ero molto diligente, volendo comunque continuare gli studi, pensai che le discipline artistiche fossero facili. Ma mi sbagliavo! Quanto alla fotografia, pensavo che premendo semplicemente un bottone sarebbe successo qualcosa. Ero veramente pigra!».
Poi, cos’è successo?
«La prima volta che stampai una foto in camera oscura, pensai che il lavoro fosse finito. Ricordo che il mio insegnante mi disse: “Finito? Ti ho forse detto questo? Hai appena iniziato!” Fu qualcosa di magico. A quell’epoca in Iran non esisteva la fotografia artistica, perché uscivamo dalla Rivoluzione e c’era solo la fotografia documentaria e il fotogiornalismo. Io e il mio amico Meheran Mohajer, fotografo molto famoso in Iran, nonché docente universitario a Teheran, siamo stati i primi a fare fotografia artistica».
La ristampa di antichi negativi su vetro che hai fatto da studentessa è stata significativa proprio per la realizzazione di Qajar. Cosa ti ha colpito nell’osservare quelle immagini che ritraevano anche le mogli dello scià Nasser al-Din, appassionato di fotografia (lui stesso fotoamatore) che nel 1858 invitò il francese Francis Carlhian ad allestire il suo studio fotografico nell’antico palazzo Golestan?
«Le foto provenivano da collezioni private e Bahman Jalali, fondatore del Photography Museum di Teheran insieme alla moglie Rana Javadi, mi chiese di stampare alcuni negativi. Vedendo quelle immagini rimasi scioccata nel constatare l’esistenza di così tante foto di donne nella collezione dello scià Nasser al-Din, molte delle quali erano sue mogli. Ancora oggi non esiste in Iran una collezione simile di ritratti femminili. Molte immagini sono state scattate dallo stesso scià, ma la cosa più interessante è che nei suoi album è stato lui a scrivere le didascalie. In un album, in particolare, sotto il nome delle mogli, figli ed altri, rivedendo le foto dopo quindici anni, Nasser al-Din prese a scrivere nuove annotazioni sotto le vecchie didascalie, come ad esempio “questa donna è malata, sta per morire o è morta”. Queste doppie didascalie mi colpirono molto. Trovavo che quelle vecchie foto fossero misteriose e volevo portare la magia di quel mistero anche in quella mia prima serie fotografica».

Nella collezione di Nasser al-Din c’erano anche molte donne nude…
«Sì. Erano meravigliose. Nessuno poteva vedere quelle foto, perché erano chiuse in una stanza del Golestan Palace. Io le ho viste attraverso alcune ristampe che aveva fatto Bahman Jalali. Erano immagini così belle che sembravano più dipinti che fotografie».
Jalali è stato un tuo insegnante insieme al fotoreporter Kaveh Golestan. Quale è stato il loro rispettivo insegnamento?
«Per essere onesta, sia Bahman che Kaveh più che insegnarmi a fotografare, mi hanno insegnato a vivere, a guardarmi intorno, a osservare la gente. Non ho mai fotografato con loro».
Erano incontri che si svolgevano intorno ad un tavolino, sorseggiando un tè?
«Sì. In Iran tutti mi chiamavano la figlia di Jalali. Era un po’ come se fossi sua figlia, dal momento che lui non aveva avuto figli. Eravamo veramente molto amici. Io lo invitavo insieme a sua moglie a casa mia, e loro facevano altrettanto. Quanto a Kaveh Golestan, ti racconto una storia. Quando stavo organizzando la mia prima mostra a Londra, all’epoca non si comunicava ancora per email, arrivavano i fax per me a casa sua. Quando, poi, decisi di partire per Londra – allora avevo 24 anni – andai all’Ambasciata Britannica, ma loro mi rifiutarono il visto. Dissero che ero giovane, non ero sposata e sarebbe stato troppo rischioso perché avrei potuto non tornare indietro. Dissi okay e me ne tornai a casa. Quando Kaveh mi telefonò e sentì come erano andate le cose, mi disse “e tu hai detto, okay? Domattina andiamo insieme all’Ambasciata”. Il giorno dopo mi venne a prendere in macchina e una volta arrivati lì, spiegò che ero un’artista e che dovevo assolutamente andare a Londra per la mia mostra. Così loro mi dettero finalmente il visto. Tornando a casa mi disse che se veramente volevo qualcosa, non dovevo mai rinunciare, ma farmi valere per ottenerla».

Tra gli artisti internazionali, invece, sei solita citare Erwin Olaf, perfezionista nell’uso della luce. Per Olaf il momento dello scatto è immediato: “avviene nei primi tre secondi, oppure alla fine del lavoro, quando si sa che è l’ultima possibilità”. Invece, per te?
«L’opposto, per me può passare anche un anno prima che scatto una fotografia. Sicuramente il lavoro di Erwin Olaf è quello che guardo sempre con ammirazione. La grande forza sta nel fatto che sembra che riesca a controllare ogni cosa, dalla luce alla gente, all’allestimento. Naturalmente mi piace anche il pensiero che c’è dietro le sue foto».
Invece, quale è la tua metodologia di lavoro?
«Prima di tutto arriva il soggetto che proviene dal mio quotidiano. Poi comincio a riflettere e cercare, quindi arriva la parte più importante, ovvero come far diventare una storia un’immagine. Mi occorre tanto tempo per fare gli schizzi, le prime prove, poi facendo foto in studio ho bisogno di accessori, abiti, illuminazione. In queste fasi c’è chi mi aiuta, soprattutto per l’editing con Photoshop. Anche per quanto riguarda l’illuminazione ho un intero team che se ne occupa».

L’idea di archivio, inteso come strumento di registrazione della memoria, regolamentato dalla catalogazione, è ricorrente anche in altre tue serie dove sono protagonisti gli oggetti. In Like Everyday (2000-2002), le donne in allegri chador mostrano, al posto del volto, utensili da cucina, mentre in Nil, Nil (2008) gli oggetti domestici convivono con strumenti bellici che rimandano alla guerra Iran-Iraq (1980-1988) e che ritroviamo in White square (2008) abbelliti da un fiocco rosso. Oggetti che vengono investiti di significati, diventando simboli…
«Sì, questa è anche una buona risposta. In Nil, Nil in particolare, parlo della guerra Iran-Iraq. A quell’epoca avevo 14 anni, ma malgrado ciò ho molti ricordi. All’inizio la guerra era lontana poi, piano piano, si è avvicinata con le bombe che cadevano a Teheran. Quando, infine, sembrava che la guerra fosse finita, in realtà ci siamo accorti che chi aveva fatto la guerra la portava con sé per tutta la vita. Ho usato quei simboli per dimostrare che la guerra è sempre con noi, nel nostro quotidiano. Il popolo iraniano è cresciuto e convive con la guerra».
Discriminazione, proibizione, censura: quali sono le barriere invisibili che ti trovi a combattere nel quotidiano?
«Non sono questioni con le quali combatto, almeno come artista, ma provo ad affrontarle. Magari c’è chi combatte. Ho deciso di vivere in Iran e questo vuol dire che accetto le sue regole, cercando la mia strada».

Manuela De Leonardis
In home page Shadi Ghadirian, foto di Manuela De Leonardis
In alto Shadi Ghadirian, Miss Butterfly #9, 2011, Digital print, 70×100 cm, Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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