Dopo le prime tre edizioni quest’anno il RUFA CONTEST rafforza il suo concetto di unicità attraverso la tematica: “Raccontare le differenze, ottenere equilibrio”. I ragazzi dell’Accademia si sono trovati a confrontarsi con una tematica attuale come quella dell’”apertura” verso le diversità creando connessioni e ponti, e quella della “chiusura” verso l’altro aumentando sempre di più le distanze. Il 12 giugno presso il Teatro Olimpico sono stati consegnati i vari premi: a Mohammad Jeddi per Il Confine; Iulia Bita che con Eufonia vince il premio Emirates e il premio RDS; Filippo Gualazzi che si aggiudica il premio MTV con Liberazioni; Elisa Sabatini che vince il premio Sky Arte per l’animazione video Tic Tac Beat; il premio della critica, invece, è stato consegnato a Camilla Gurgone per la sua installazione Echinoidea composta da mille ricci di mare.
Il premio del Rufa contest è stato consegnato a Francesca Cornacchi per The Code 01 dall’artista contemporanea iraniana Shirin Neshat testimone dell’evento. Neshat è una delle più importanti artiste donne che ha fatto dei suoi lavori una testimonianza tangibile del cambiamento politico, sociale e religioso all’interno di un paese difficile come l’Iran. L’abbiamo intervistata.
Oggi l’arte ha un’importante missione da compiere: “sviluppare consapevolezze e riflessioni collettive”. Cosa pensa a proposito del ruolo dell’arte in questo particolare periodo storico?
«Basandomi sulla mia esperienza credo che l’arte e la cultura siano molto importanti in un periodo di crisi. Penso che l’arte interagisca profondamente con le persone grazie alla sua capacità di trasmettere messaggi di notevole contenuto. Il ruolo rilevante che rivestono gli artisti è quello di “tramite” tra le persone e il loro potere. Io non credo che questi abbiano un obiettivo predefinito; attraverso la loro sensibilità parlano con le persone e delle persone. Nel mondo dell’arte contemporanea il giudizio sugli artisti si basa sul loro valore economico all’interno del mercato e non sulle loro posizioni, non mi riferisco solo a quelle politiche ma anche ai loro orientamenti rispetto alla cultura popolare. Questo è il motivo per cui io faccio film, muovendomi anche al di fuori dell’arte contemporanea, poiché credo che utilizzando più media, come il cinema, si possa raggiungere un numero più ampio di persone. Penso che sia necessario uscire dalla “comodità” per intraprendere percorsi più difficili, mettendosi in gioco. Personalmente io ho finanziato i miei lavori e non ho guadagnato soldi ma ne ho persi, però per me questo è stato uno dei modi migliori per imparare a parlare di argomenti sociali e politici molto complessi come il femminismo, il fanatismo religioso, e la storia».
Shirin Neshat, Looking For Oum Kulthum
Sebbene ci troviamo nel XXI secolo i lavori degli artisti uomini sono molto più enfatizzati rispetto a quelli di artiste. Tu sei una delle donne più importanti all’interno del panorama artistico contemporaneo, cosa pensi a proposito di questa chiusura? Cosa provi rispetto a questa “categorizzazione” nel mondo dell’arte?
«Non so cosa pensare ma posso parlare di come io approccio a questo argomento. I miei progetti si basano su tematiche femminili perché sono io stessa una donna e, sicuramente, mi relaziono meglio con i loro problemi rispetto ad un uomo. La mia ispirazione proviene dalla forza di molte di loro che sono state davvero importanti per me, icone e protagoniste dei miei film come ad esempio in Women without men. Ho amato il libro e la vita che queste donne hanno vissuto. Mi hanno affascinato le diverse reazioni rispetto alle difficili condizioni di vita: essere madre, donna e moglie, in una società chiusa e dominata da uomini. Sono incantata da queste donne e dal coraggio con il quale abbiano dovuto districarsi tra il loro desiderio di affermarsi e i ruoli tradizionali che hanno dovuto ricoprire. Io come donna sono stata una mamma, una donna tradizionale, e guardo le altre che hanno avuto una vita difficile così come l’ho avuta io e che comunque sono riuscite a mettere tutto all’interno del loro lavoro. Penso che non si possa separare la donna (e tutto ciò che la contorna) dalla sua arte; invece penso che gli uomini possano separare elementi esterni dal loro lavoro artistico. Non vorrei generalizzare ma credo che essi guardino il piano generale e cosa gli interessa davvero. Questo non vuol dire che non portino le loro esperienze nella loro arte ma penso che per le donne, specialmente nel Medio Oriente, è più difficile conciliare famiglia e carriera perché la società è contro di loro. Questa è la ragione per cui la mia ricerca è orientata verso il punto di vista femminile, perché penso che le donne, attraverso la loro tenacia e il loro coraggio, si scaglino contro un muro ideologico abbattendo le convenzioni conservatrici e maschiliste attraverso il loro potere».
Shirin Neshat, Looking For Oum Kulthum
Perché hai deciso di utilizzare la fotografia e la videoarte come strumenti di ricerca artistica?
«Ho scelto la fotografia perché ha un realismo che mi piace più della pittura e della scultura. Sono stata molto ispirata dalle fotografie di taglio giornalistico. In Donne di Allah ero interessata alle donne militari e alla loro resistenza, non avrei potuto fare loro un “ritratto” migliore se non attraverso la fotografia. Il cambio di media c’è stato quando ho capito che mi stavo ripetendo. Attraverso il video mi è venuta l’idea di raccontare delle storie partendo da più punti di vista creando assunti dove orbitassero musiche, coreografie, performance. Il video è diventato come una sorta di esperienza che trasmette emozioni psichiche e fisiche in chi lo guarda e lo interiorizza. Sono riuscita a mettere il pubblico contro il video e questa contrapposizione ha avuto come risultato un’interazione profonda, questo ovviamente ha portato poi al cinema».
Valentina Muzi