Donne velate che puntano pistole con sguardo altero, con le mani coperte da frasi scritte in farsi, l’antico persiano. Nei primi anni Novanta le opere fotografiche dell’artista iraniana Shirin Neshat (Qazvin, 1957) hanno denunciato la situazione delle donne in un Paese piegato dalla rivoluzione di Khomeini. Sono le Women of Allah, immagini scattate nel 1993 e esposte di recente al Mathaf, il museo d’arte moderna di Doha (Qatar) in occasione della mostra antologica Afterwards, insieme a opere più recenti, come The Book of Kings (2012) e Our House is on Fire (2013), dedicata ai protagonisti della Primavera Araba. Le opere di Shirin Neshat sono perciò sempre impregnate anche della complessa e spesso difficile realtà politica del suo Paese e del mondo arabo: per questo le abbiamo chiesto un’opinione dopo i fatti di Charlie Hebdo e il clima di terrore che l’Isis tenta di instaurare.
Oggi, come artista iraniana, qual è la sua posizione sul massacro di Parigi e, in generale, sulla libertà di espressione?
«Credo nella libertà di espressione e per questo vivo in esilio e non nel mio Paese, che priva il suo popolo dei diritti umani fondamentali come la libertà di espressione. Nonostante questo, non credo nella provocazione come valore per affermare questa libertà. Però mi considero una musulmana laica, e per principio sono contraria a ogni forma di estremismo religioso che possa causare violenza o sofferenza, introducendosi nella vita privata delle persone, da qualunque fonte provenga: cristiana, musulmana o ebrea».
La libertà di espressione è un tema rilevante nel suo lavoro?
«Dal momento che vivo fuori dalla mia patria non mi confronto con le autorità iraniane ogni giorno, anche se il mio lavoro continua a indirizzarsi verso tematiche socio politiche e religiose relative all’Iran. Ma rifiuto di utilizzare l’arte come uno strumento per creare controversie, o per inasprire, offendere o contrastare qualsiasi forma di credo religioso o ideologia politica. In generale penso che qualsiasi espressione artistica che sia fondata su un pregiudizio sia sempre manipolativa e sbagliata, dal momento che spinge verso lo sdegno o addirittura la violenza».
Ricorda quali furono le prime reazioni alle sue Women of Allah?
«All’inizio della mia carriera, molti occidentali pensavano che le parole scritte sui corpi femminili nella serie fotografica Women of Allah fossero versetti coranici. In realtà ho sempre usato soltanto versi poetici, perché non potrei mai immaginare di rendere banale ciò che è sacro per milioni di musulmani».
Adesso che reazioni provocherebbero?
«Quello che è successo al giornale Charlie Hebdo a Parigi, mi sembra che riaffermi l’idea che la rabbia nutre la barbarie, e che una forma di rabbia conduce ad un’altra forma di rabbia, e come siamo spinti verso un circolo vizioso di astio, rivincita e brutalità. La risposta può essere la creazione di dialoghi su come possiamo prevenire l’ira immotivata che causa tanta sofferenza. Mi piace credere che ci sono persone che hanno valori ai quali non aderisco personalmente, ma che rispetterò e tollererò finché saranno pacifici».
Crede nella possibilità di un dialogo vero e profondo tra l’Islam e l’Occidente?
«In qualità di artista e non di esperta, ritengo che la cultura occidentale non riesca a comprendere che non tutte le culture aderiscono ai valori razionali dell’Occidente. Il problema è il pregiudizio legato all’idea di confine, necessario ai musulmani per proteggere alcuni valori, e così estraneo agli occidentali che cercano di eliminare i confini per consentire una società aperta e giusta».
In che modo?
«Può sembrare troppo ottimista e ingenuo da parte mia, ma credo che la risoluzione di questa divisione storica tra le culture islamica e occidentale sia possibile solo se i popoli cominciano ad assumere un approccio diverso da quello dei governi. Penso che una soluzione sia possibile soltanto nell’evitare ogni ritorsione, con una diplomazia pacifica che conduca al rispetto reciproco, alla tolleranza e perfino alla celebrazione delle nostre differenze».
Crede che gli artisti possano avere un ruolo in questo dialogo?
«Sono fermamente convinta che gli artisti possano giocare un ruolo significativo nel costruire un dialogo tra culture in conflitto, perché il linguaggio dell’arte ha l’abilità di rimanere al di sopra e oltre le differenze religiose, culturali e nazionali, e arrivare nel profondo della psiche umana. Spesso però gli artisti si trovano nella posizione difficile di rispondere alle problematiche politiche del loro tempo, senza essere apertamente controversi, manipolativi, di parte o didattici. Dopotutto, è molto più facile fare un’arte che punta il dito su quello che è giusto o sbagliato, e più difficile fare arte che crea un momento di discussione, un forum che apre nuove prospettive e invita lo spettatore a formarsi una propria interpretazione. È attraverso quest’ultimo approccio che gli artisti possono giocare un ruolo significativo in questo momento storico».
Per concludere, l’arte contemporanea può assumere un valore politico?
«Sicuramente dovrebbe essere più consapevole dei problemi politici. Oggi percepisco una forte assenza di dialogo critico su temi politici, anche quelli relativi alla libertà di espressione, che è al centro di ogni pratica artistica».