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08
luglio 2015
L’Intervista/Shuddhabrata Sengupta
Personaggi
PASSAGGIO IN INDIA
Uno dei fondatori del collettivo dei Raqs Media ci parla dei cambiamenti dell’India, dell’arte e del collezionismo
Uno dei fondatori del collettivo dei Raqs Media ci parla dei cambiamenti dell’India, dell’arte e del collezionismo
In occasione della 3a edizione del Festival di Cultura e arte Indiana “Summer Mela 2015” (Roma, 19-27 giugno) organizzato da FIND-Fondazione India-Europa di Nuovi Dialoghi- in collaborazione con il Museo MAXXI che ha ospitato conferenze e workshop con artisti in residenza, abbiamo incontrato Shuddhabrata Sengupta, uno degli esponenti del collettivo indiano dei Raqs Media.
Il gruppo – nato a New Delhi nel 1992 dall’incontro di Monica Narula, Jeebesh Bagchi e Shuddhabrata Sengupta – sfugge alle catalogazioni. Noti per il loro eclettismo, i componenti dei Raqs Media Collective si sono presentati al mondo sotto tante vesti: quelle di artisti, di curatori, di editor, di ricercatori, ma soprattutto di “catalizzatori di processi culturali”. Nel loro lavoro utilizzano stampe, software, testi, video, performance, organizzano workshop e lecture, tutti i mezzi che possono esprimere le tematiche legate alla contemporaneità. Nel 2000 co-fondano a Delhi Sarai Media Lab, una piattaforma per la ricerca interdisciplinare che ha riunito teorici, ricercatori, artisti, professionisti dei media e attivisti provenienti da tutta l’India con l’obiettivo di perseguire progetti di ricerca sulla condizione urbana contemporanea in India.
Quanto è radicato il lavoro dei Raqs Media Collective nella cultura indiana contemporanea?
«Uno degli aspetti più interessanti, uno dei piaceri più intensi dell´arte contemporanea è dato dalla possibilità di spaziare tra le culture. Per fare un esempio, nel workshop che abbiamo realizzato qui al Maxxi abbiamo iniziato parlando di uno scrittore giapponese del XII secolo, per poi passare ad analizzare l`Infinito di Leopardi ed infine concentrarci sul principio di “pienezza“ di Tagore. Io però penso anche che noi vediamo il mondo dalla prospettiva del luogo in cui viviamo e quindi il mio lavoro e quello dei Raqs è molto radicato nel tessuto culturale di Delhi, città in cui sono nato e in cui vivo. Credo anche che l’esperienza che facciamo della vita è diversa a seconda della città in cui viviamo: se vivessi a Berlino, Roma o New York osserverei il mondo da una prospettiva diversa. E naturalmente la storia e la cultura di Delhi fanno parte del mio lavoro».
In che modo sta cambiano la società indiana?
«Delhi, una delle città più grandi del mondo, è anche la città che probabilmente sta cambiando più velocemente e anche chi ci vive è sottoposto a una trasformazione radicale. In una città in così rapida trasformazione, cambia anche la tua esperienza del tempo, dello spazio, dell’urbanistica, cambiano le relazioni tra le persone, tra i sessi. Noi riflettiamo molto su questi cambiamenti nel lavoro che facciamo come Raqs e riflettiamo molto anche sulla velocità del cambiamento e su tutto quello che implica per l’essere umano e per l’ambiente. Del resto in India qualcosa cambia molto rapidamente, qualcosa cambia poco, o per niente. E quando vivi in una società che si trasforma così velocemente, si instaura una relazione molto complessa e difficile con quello che non cambia. Sono inevitabili le riflessioni sul tempo, sul senso di appartenenza, sullo spazio. Per esempio, mentre sono seduto in questi meravigliosi giardini del Maxxi, osservo la gente che, seduta ai tavolini, legge un libro. Capisco che uso la gente fa in questa città di uno spazio come questo e mi fa riflettere su quali siano le occasioni in cui la gente possa fare lo stesso a Delhi, come sono cambiate da noi le relazioni tra uomini e donne, tra giovani ed anziani, tra gente che è arrivata nella città da altre parti del mondo e chi invece a Delhi è nato e cresciuto. Tutto ciò è oggetto di ricerca per i Raqs e influenza molto il nostro lavoro».
La velocità del cambiamento del suo Paese si rispecchia anche nelle zone più rurali dell’India?
«Le rispondo con la ricerca che stiamo portando avanti in questo momento e che riguarda il petrolio. La miscela naturale di idrocarburi che compone un litro di petrolio, impiega fino a 400 milioni di anni per formarsi. Quel litro di petrolio viene poi estratto in luoghi remoti del pianeta – mari, foreste, deserti -. Quando infine arriva nelle nostre città impiega solo 9 minuti per scomparire. Nel lungo processo di estrazione qualcosa cambia per sempre nei luoghi in cui il petrolio è stato trovato: una foresta viene incendiata, una montagna spianata, un deserto violentato. Inevitabilmente perciò, quando osserviamo le automobili che sfrecciano nel traffico delle nostre città dobbiamo anche pensare ai cambiamenti che accadono nel deserto».
E lei come reagisce a tutto questo?
«La mia esperienza è completamente cittadina, la mia cultura è urbana, sono nato e cresciuto in una grande città, quindi non posso pretendere che quello che so abbia a che fare con la campagna perché non ne ho esperienza, ma per poter pensare a cosa significa vivere in una grande città, devo pensare a quello che accade fuori da essa. La ricerca dei Raqs riflette sui paesaggi in generale, cosa accade ai mari, alle città – quelle più sviluppate, come quelle più arretrate – , alle campagne, ai nuovi centri urbani che sorgono nel mezzo del nulla. Nel nostro lavoro riflettiamo sempre di più sui cambiamenti del nostro pianeta, sull`impatto di questi cambiamenti sulle popolazioni e soprattutto riflettiamo su come poter fare un’arte nel XXI secolo che raggiunga ogni persona nel mondo, non come massa, ma uno per uno. Questo è il nostro desiderio, questo è quello che cerchiamo di realizzare».
Nel vostro lavoro utilizzate il video, la performance, la fotografia, ecc. Ma c’è un media che funziona meglio di un altro per comunicare la vostra ricerca?
«A dire il vero non lo so. Certe volte vedo che si impiega poco tempo per raggiungere un punto verso cui si è tesi, altre volte lo si raggiunge con più lentezza, ma penso che quello che stiamo facendo oggi potrà avere un senso tra cinquant’anni. E va bene così. Voi vivete in una città, Roma, in cui alcune cose iniziano ad avere senso ora, dopo 2000 anni, quindi non ha importanza con quale mezzo e in quanto tempo riusciremo a dare un senso alla nostra ricerca».
L’esperienza di Sarai che avete fondato nel 2000 a Delhi è stata importante per l´arte contemporanea indiana, quali sono le ragioni che vi hanno spinto a lasciarla nel 2013?
«È stata una meravigliosa avventura e credo che abbiamo fatto tanto per Sarai in tredici anni. Ne siamo usciti perché non c’erano più i fondi per portare avanti le attività con le stesse intenzioni, la stessa qualità con cui le avevamo condotte per tredici anni. Ma in tutti quegli anni in cui Sarai è stata molto attiva, credo che abbiamo contribuito a creare una nuova generazione di artisti, di intellettuali, di scrittori, tutti di grande qualità. Abbiamo creato un futuro che ora va per la sua strada e questo è per noi motivo di grande soddisfazione. Mi dispiace molto che ora Sarai abbia perso quella rilevanza che aveva acquisito per la cultura contemporanea indiana. Ma le fondazioni private non sostengono l’arte e il governo tanto meno, è così che vanno le cose in questo momento in India, magari cambieranno, ma per il momento è così».
Il mondo del collezionismo indiano sta cambiando con la stessa rapidità con cui cambia il resto della società? I collezionisti si stanno aprendo anche ad artisti internazionali, o continuano ad acquistare quasi esclusivamente artisti indiani?
«Le cose stanno cambiano, ma non così tanto come potrebbero. Penso che i collezionisti dovrebbero essere interessati all’arte, non da dove questa proviene e dovrebbero essere interessati ai suoi contenuti e non pensarla come decorazione per le loro case. Mi auguro che un giorno i collezionisti indiani diventino così, ma non lo sono ancora. Il nostro lavoro e quello dei nostri colleghi, ha bisogno di essere visto come arte nella sua contemporaneità, appartenente a questo mondo e a questo tempo. I collezionisti italiani dovrebbero poter guardare al nostro lavoro non perché siamo indiani, ma perché facciamo cose che sono rilevanti per il nostro mondo di oggi, allo stesso modo i collezionisti indiani dovrebbero essere interessati, per esempio, ai lavori di giovani artisti emergenti italiani. Penso che questo sia l’unico modo in cui l’arte contemporanea possa diventare una forza globale. In India ci sono tante persone che possiedono grandi ricchezze e queste persone dovrebbero aprire ed estendere le loro collezioni, realizzare delle fondazioni pubbliche, creare musei, invitare i più interessanti giovani artisti di tutto il mondo per fare in modo che l’India possa partecipare alla conversazione globale intorno all’arte contemporanea. Questo gioverebbe alle loro stesse collezioni, darebbe loro maggior valore».
Perché ancora tanta resistenza allora verso gli artisti stranieri? E` una forma di nazionalismo forse?
«A dirla tutta, se un collezionista indiano colleziona artisti americani è una forma di rispetto nei confronti degli artisti indiani, significa che il lavoro degli artisti indiani è al livello di quello che accade in America o altrove nel mondo. C’è molto più rispetto del nostro lavoro se questo è all’interno di una collezione internazionale, solo in questo modo i collezionisti indiani possono mettere in dialogo il meglio del loro Paese con il meglio dell’arte contemporanea mondiale, questo valorizza il mio lavoro. Se collezionano solo arte indiana, significa che non sono interessati alla qualità delle opere, quello è solo una forma di “protezionismo”, di nazionalismo che non fa bene all’arte. Quando lo capiranno questo sarà un gran bene per loro, per noi artisti, per tutti».
Quali sono i programmi die Raqs Media Collective per il prossimo futuro?
«Oltre ad essere presenti alla Biennale di Venezia, abbiamo in corso una importante retrospettiva a Delhi, una mostra che sta girando il mondo: Madrid, Mexico City, Buenos Aires. Attualmente abbiamo diverse mostre in corso anche negli Stati Uniti e altre sono in procinto di essere inaugurate: a Boston in settembre e ad ottobre a Saint Louis. E nel frattempo stiamo lavorando alla produzione di opere che si potranno vedere nei prossimi due anni».