“Lacruna” è la mostra che Simone Pellegrini – uno dei più originali artisti contemporanei italiani – ha inaugurato lo scorso 15 novembre nella città di Teramo a L’ARCA, laboratorio per le arti contemporanee e che è possibile visitare fino al 12 dicembre. La mostra, a cura di Umberto Palestini, si inserisce all’interno del progetto Factory dell’Accademia Raffaello di Urbino e dell’Assessorato alla Cultura della Città di Teramo ed è stata realizzata grazie a Naca Arte, in collaborazione con la Fondazione Tercas e le gallerie Cardelli & Fontana di Sarzana, Bonioni Arte di Reggio Emilia e Giacomo Guidi di Roma.
Una mostra che stupisce e vive di parola: quella che l’artista cerca fra le sue letture, fa propria, solca sulle pagine bianche dei libri, per poi riviverla come segno nell’orchestra compositiva delle sue mappe. Ecco come Simone Pellegrini racconta il suo lavoro
“Lacruna” è il titolo della sua mostra, un nome che ha in sé una musicalità allo stesso tempo accogliente e respingente. Come nasce questo progetto?
«Il titolo non avrebbe dovuto essere “Lacruna”. Il titolo originario era “Lacuna”, evocando il concetto della mancanza, per me fondamentale. Però l’aggiunta della «r» mi ha fatto pensare di potere portare la convessità ad una soluzione differente. Cercare di fare in modo che tutto ciò che è negativo ad un certo punto cambia anche di segno. L’artista del resto è comunque un trasformatore, qualcuno che deve essere sempre in grado di far cambiare di segno alcune cose. La «r» è una consonante residuale: leggendo, ho scoperto che «k», «r» ed «n», nelle lingue semitiche, sono sempre state il nocciolo duro all’interno di quelle parole che indicavano il potere: corno, crine, corona. E quindi questa «r» centrale alla fine è rimasta, per far sì che possa cambiare di segno alla mancanza».
Nelle sale espositive, alcuni libri aperti offrono al fruitore le pagine sulle quali lei dà inizio al lavoro vero e proprio: la visione che si fa disegno e poi segno e dunque significato. Un processo molto elaborato che mette al centro un’attenzione particolare per la parola.
«Il rapporto col linguaggio è il rapporto principale. La questione non è mai meramente segnica, ma è sempre qualcosa che riguarda il principio articolare dei segni, la loro capacità di costituirsi all’interno di una sorta di cosmologia. La sintassi che si crea è fondamentale, perché ogni segno deve sostenere l’altro e deve trovare un’amplificazione del proprio significato. Il linguaggio è però importante anche per un altro motivo. Perché se c’è qualcosa che mi spinge proprio ad immaginare è la frequentazione di alcuni scritti: quelli filosofici o quelli riguardanti la scienza, la fisica, la cabala. Ma non dimentichiamo l’equivocità dei segni: essi continuano a pullulare a patto di essere appunto equivoci».
Ho letto che i segni sono per lei il suo “roveto ardente”. Cosa rappresenta questa metafora?
«Il roveto ardente è un’immagine biblica che inevitabilmente rimane impressa in ogni cuore. Un fuoco che brucia ma non consuma. È qualcosa che corrisponde a quel surplus di energia che un essere che si accinge alla dimensione della creazione deve tenere in considerazione. Se c’è qualcosa che assomiglia al roveto per me è esattamente l’opera. Il luogo dell’opera è il roveto e i segni combusti devono riuscire a permanere nonostante la combustione».
E allora ecco il fuoco, la carta, le matrici e il segno che si imprime senza il tocco diretto della mano.
«Effettivamente mi rendo conto che quelli che sono i segni “originali” arrivano poi nell’opera come negativi su cui io non poso mai definitivamente la mano. C’è sempre la pellicola della matrice che mi divide da quella che verrà poi considerata come l’opera definitiva. E per me è sempre come una specie di epifenomeno».
Nella ricerca l’artista tende a mantenere sempre vivo qualcosa. Nel suo processo compositivo che cosa resiste?
«Si mantiene vivo il processo. Una cosa che è infinitamente viva si declina all’infinito. E il problema è proprio questo: declinare i segni. Quanto più una cosa è viva, tanto più è declinabile e tanto più è irrisolvibile. E quindi se non ha soluzione, ma comunque un modo di continuare a procedere e di diversificarsi, allora per me questa è una cosa massimamente viva, perché resiste. Io che cosa faccio? Cerco di far resistere i segni alla quantità degli urti e delle modificazioni a cui li sottopongo. Si diventa particolarmente intimi di un segno, di un referente, proprio quando questo referente non si riferisce più a nulla, quando comincia a riposare su se stesso. Quando cioè non ha più neppure il sentimento di essersi accomiatato dal mondo, ma è semplicemente lontano».
Eppure nei suoi lavori si respira il rapporto dicotomico fra “verità” e “non verità”, fra qualcosa che c’è prima e qualcosa che poi dovrà accadere irrimediabilmente nella composizione dell’opera.
«La verità rimane inevitabilmente fuori. Ci si impratichisce con la non verità. Il problema non è tanto accedere alla verità quanto piuttosto trovare un modo per corteggiarla. Accedere ad essa cosa significa? Accompagnare le cose all’interno della loro brutalità, laddove quasi non le vuole più nessuno».
Nelle sue opere il segno è rarefatto come se le interessasse più la sospensione delle cose piuttosto che la definizione. Nell’aspetto compositivo qual è la sua più grande sfida?
«È una sfida topografica. Tutti quelli che identificano i miei lavori come delle mappature hanno in parte ragione. In realtà più che delle mappe per trovarsi sono delle mappe della perdizione. Predisporsi alla perdizione significa appunto predisporsi alla irriconoscibilità. Alla esibizione di alcune potenze che in maniera del tutto arbitraria si manifestano in modo piuttosto che in un altro».
Citando Amleto, lei scrive che «l’opera d’arte è sempre la trappola tesa per il corpo del re». Che cosa intende?
«Quello che trovo di affascinante in Amleto è proprio questo, cioè il fatto che sia deprivato della propria vita perché in lui corre un imperativo fantasmatico, che è quello di fare ciò che il padre non ha potuto fare o rimediare a qualcosa che il padre ha subito. Da questo punto di vista l’unica soluzione diventa l’orfanato, tentare di non essere figli di nessuno. Con questo ci si predispone ad una molteplicità di referenti. L’opera è una trappola perché è il luogo dell’induzione, è il luogo in cui si evoca la possibilità di un appuntamento a cui generalmente non si presenta nessuno. Eppure chi mette in atto questa cosa c’è sempre».
E se l’opera – come lei dice – è una trappola perché luogo dell’induzione, quali sono allora i luoghi di Simone Pellegrini?
«Il vero luogo è quello mentale. L’apparizione dei miei libri nelle esposizioni è cominciata nel 2010. Sono sempre i libri che mi accompagnano ed è lì che vergo le prime immagini. Un luogo entropico in cui si articola la mia immaginazione: i primi disegni, i primi abbozzi, le prime trasformazioni. Poi esistono dei luoghi fisici, verso i quali io ho quasi una disposizione naturale alla claustrofobia: il mio studio, ad esempio, è un luogo dal quale vorrei uscire tutte le volte che ci entro».