Sono una delle coppie d’artisti più attive degli ultimi anni. Sono nati negli anni ’80 e dopo essere stati protagonisti dell’ultima edizione di Contemporary Locus a Bergamo, al Monastero del Carmine, sono ora anche al MAMbo di Bologna, all’interno di “That’s IT”, dove potrete giocare con il loro progetto e magari poter urlare che la squadra avversaria è una m*****, anche se si tratta di una delle più grandi avanguardie della storia dell’arte. Intervista con Simone Santilli e Niccolò Benetton, alias The Cool Couple, since 2012.
Nel vostro ultimo progetto per Contemporary Locus a Bergamo avete iniziato con una meditazione, e chiuso con una colonna da “modellare” con una mazza da baseball. Che penso, in fondo, sia anche il sogno di ogni cittadino comune: scendere una mattina in strada e prendere a mazzate (idealmente) la politica, la burocrazia, il senso di frustrazione, di impotenza. Magari pure i sindacati. Quanto vi convince, per il vostro lavoro, il concetto di arte “sociale” o “relazionale”?
«Turbulence, il progetto presentato all’interno del Monastero del Carmine di Bergamo con il supporto di Contemporary Locus, combina due lavori che per certi versi sono due lati della stessa medaglia: da un lato, Karma Fails analizza la meditazione come strumento biopolitico, una specie di software per ridurre l’incidenza dello stress e aumentare la produttività degli individui; dall’altro, Turborage riflette sulla presenza della violenza nella nostra società, tra ipervisibilità e controllo. Entrambe le ricerche sono il prodotto del nostro interesse per le modalità di mappatura del corpo, che inevitabilmente pongono l’eterna questione della libertà d’azione. Specialmente in questo periodo, in cui le dicotomie paura/sicurezza, instabilità/stabilità sono strumenti di governo, abbiamo sentito l’urgenza di interrogarci sulla natura del sistema nel quale abitiamo come cittadini di Paesi Occidentali: aree geografiche apparentemente altamente desiderabili affette da psicosi collettive, molte delle quali brillantemente descritte già da tempo da figure a cui siamo molto affezionati, da Deleuze e Guattari a Ballard. Crediamo quindi che sia difficile esimersi dal chiedersi che ruolo ha un artista o se l’arte possa attivare delle dinamiche alternative. Non siamo così convinti che ci possa essere una vera e propria arte politica, ma la costruzione di reti e le relazioni che un’opera può generare è estremamente interessante. Siamo nel pieno di una rivoluzione delle forme di interazione tra persone e cose. Non siamo dei fautori di un nostalgico ritorno a un “pre-internet brain”, ma il rapporto con i fruitori dell’opera in primis e tutte le relazioni tra le figure interne al sistema dell’arte crediamo siano elementi imprescindibili della pratica di ognuno di noi. Abbiamo bisogno di riattivare un vero e proprio scambio. Per non finire in discorsi generalisti e utopici, torniamo ai nostri lavori: l’elaborazione di opere esplicitamente relazionali è una conclusione a cui siamo giunti recentemente. Una delle domande che tornavano più spesso negli scorsi anni, sin da quando studiavamo fotografia e poi nella nostra ricerca sulla cultura visuale, riguardava la questione dell’efficacia delle immagini contrapposta a quella di un’opera d’arte. Con questo non intendiamo il fatto che un’opera debba avere necessariamente una finalità sociale, ma l’esempio che portiamo più spesso è quello del Rwanda Project di Alfredo Jaar, il quale, nel 1994, si interrogava sullo stesso problema. Rosalind Krauss, nei suoi saggi sulla fotografia, descriveva l’esperienza corporale con cui lo spettatore fruisce un’opera, eppure spesso si sente lamentare l’indifferenza del pubblico, lo scarso coinvolgimento (del resto, quanti di noi cercano le condizioni ideali per visitare una mostra, se mai possono verificarsi? A quanti opening andiamo solo per fare pubbliche relazioni? Quante opere ci lasciano davvero un segno?). Senza presunzione e originalità, dal momento che una gran parte dell’economia non solo culturale si sta sempre più incentrando sul commercio di esperienze (da Airbnb a tutto il resto), abbiamo scelto di provare a coinvolgere realmente i visitatori. Nel un contesto del Monastero del Carmine abbiamo avuto la possibilità di sperimentare alcuni aspetti performativi che avevamo in mente. Si è trattato di un’esperienza unica nel suo genere perché, oltre al dialogo con uno spazio che è un vero e proprio condensato di storia (senza contare il suo ruolo di luogo deputato a una meditazione sui generis, considerando il ruolo delle celle in cui i monaci erano chiamati a confrontarsi con il lato oscuro della fede), abbiamo avuto l’occasione di rapportarci con il Teatro Tascabile di Bergamo, una compagnia che abita quel luogo e che lo ha letteralmente integrato nella propria pratica. I dialoghi che sono scaturiti da questi incontri, insieme all’esperienza di Contemporary Locus, si sono tradotti in un’esperienza fortissima, dove i fattori ambientali sono diventati realmente parte delle opere».
“Happy to pay is the new black” è un claim di un vostro vecchio progetto che mi è rimasto impresso, soprattutto per la contestualizzazione delle possibilità di esclusione e di controllo che derivano da azioni “facilissime” e tese a migliorare la nostra esistenza. Penso anche alla connessione sui treni, dispositivo che permette di far produrre anche nei tempi che un tempo erano “morti”, o quantomeno dedicati ad altro. Che rapporto avete con il tempo, come ne disponete e come lo disponete nei vostri progetti?
«Non abbiamo mai affrontato il tempo di petto, e forse non lo faremo mai, perché ci angoscia parecchio. Pensare a come è lottizzato ci manda fuori di testa! Non sappiamo se rispondiamo completamente alla tua domanda dicendo che uno dei modi con cui il tema del tempo entra più prepotentemente nel nostro lavoro è quando ci interroghiamo sulle modalità di fruizione di una mostra. Ragioniamo sempre in termini del tempo medio trascorso davanti a un lavoro rispetto a una durata ideale e cerchiamo di ragionare in modo da produrre qualcosa che sia accessibile a diversi livelli, anche in termini di tempo. Non ci piace il pensiero di forzare gli altri, rinchiuderli nello spazio espositivo, ma di stuzzicarli, e forse con Emozioni Mondiali, ora in mostra al MAMBO, ci siamo riusciti. L’altra faccia del tempo che influisce tantissimo sui nostri progetti è quella delle deadline. In questo siamo pessimi. Se non siamo sotto pressione ci perdiamo subito e in questo probabilmente siamo assolutamente mediocri, come dimostra un meme che girava su Facebook anni fa. Come dimostrato nell’immagine sottostante, a un certo punto in studio fioccano i Kleenex».
In una intervista recente a Exibart Lorenzo Balbi ha dichiarato che la generazione di “That’s IT”, la mostra bolognese in cui anche voi siete stati invitati, non ha scelto di mettere in scena “la crisi”. Come reagite e come pensate questo altro “concetto” molto contemporaneo di cui a volte qualcuno ha pure negato l’esistenza, mentre per altri autori si parlava di crisi già oltre 40 anni fa?
«Per quanto ci riguarda, di crisi e dei suoi aspetti abbiamo parlato apertamente in vari progetti e continuiamo a occuparcene assiduamente (il nostro primo video, The Third Chimpanzee, Treviso 2012 è un progetto che nasce proprio dagli effetti della crisi del 2008, ad esempio). Forse la crisi è così presente nelle nostre vite da essere ormai l’aria che respiriamo. Ma non è solo economica, politica o sociale. È un po’ tutto in crisi: Jason Moore e tanti altri parlano di una crisi sfaccettata che interessa ogni aspetto delle nostre vite. Su un piano personale, siamo in crisi ogni volta che dobbiamo farci venire una bella idea e ci sono persone che si aspettano una figata dall’altra parte del telefono, siamo in crisi prima di un opening, con l’ansia che qualcosa vada storto, siamo in crisi con le fidanzate, siamo in crisi ogni volta che sentiamo il nome del ministro dell’interno o di quello del lavoro… Insomma. Parliamone. Personalmente pensiamo che la crisi emerga comunque in “That’s IT”: ci sono lavori che raccontano di passati o presenti problematici, lavori sui malfunzionamenti della nostra società e via dicendo. Siamo rimasti molto ben impressionati da una mostra vista recentemente all’HKW di Berlino e intitolata “Neolithic Childhood. Art in a false present, c. 1930”, nella quale il 1930 viene preso ad esempio di un periodo di collassi del mercato e disoccupazione di massa, industrializzazione della percezione e inaudite violenze colonialiste, in altre parole un periodo di profonda crisi della modernità. Attraverso opere delle avanguardie e non solo, la mostra esplora come diverse generazioni di artisti hanno cercato in quel periodo di sfuggire al presente, creando mondi alternativi, trasformando la fuga in un motore per una riflessione politica oppure per la ricerca di una nuova libertà espressiva in grado di costituire un nuovo punto di partenza. È stato quasi scioccante percepire quanto familiari erano i bisogni, le riflessioni e i dubbi che animavano la ricerca artistica quasi novant’anni fa, ma ci ha anche convinto che forse sotto sotto stiamo anche noi cercando di esorcizzare la crisi non affrontandola direttamente. Se lo stiamo facendo, forse ci stiamo perdendo delle possibilità».
Recentemente sono stato verbalmente aggredito da un architetto del paesaggio che asseriva che l’arte contemporanea si nasconde dietro il termine “Antropocene” per fare cazzate, e il signore in questione ha continuato dicendo che la categoria del mondo dell’arte è la più inquinante del pianeta per l’abitudine a prendere aerei. Aggiungendo ovviamente la teoria delle scie chimiche. Mi viene in mente un altro vostro progetto: “Karma Fails”: mi sembra lavoriate scardinando anche il punto di fallimento, mettendo il dito nella piaga laddove le varie fedi si trasformano in leggi senza appello e senza uscita…
«Ce la siamo risa un po’ prima di iniziare a risponderti…Al di là dell’Antropocene in sé, quando qualcuno dice che l’arte si nasconde dietro qualcosa ci fa sorridere, perché è verissimo e al tempo stesso no. È vero, siamo tutti dei vigliacchi e se molte volte ci ripariamo dietro a qualcosa, si tratta piuttosto dell’Arte stessa, che è una scusa, ma anche una categoria di pensiero liberante.
L’Antropocene è un argomento super trendy adesso e in Italia lo sta diventando in tempi recenti, grazie al lavoro di traduzione e divulgazione di piattaforme online, case editrici e autori. In altri Paesi è già oggetto di dibattito da almeno un decennio in campo culturale, per cui è stato sufficientemente problematizzato e, se vuoi lavorarci, ti basta evitare di prendere la cosa in maniera acritica. Tuttavia, pur con tutte le sue problematicità, questa etichetta così dibattuta ha le potenzialità per stimolare un discorso sulla responsabilità: non tanto quella di una specie superiore con poteri quasi divini, ma quella di individui e collettività intrappolate all’interno di un sistema che ha ridotto la vita sulla Terra in uno stato pietoso. Un sistema che è fuori e dentro di noi e del quale spesso siamo inconsapevoli artefici. L’Antropocene dà un nome a qualcosa che probabilmente qualcuno percepiva, ma non riusciva a identificare, dà una definizione a una situazione che ci chiede di prendere delle decisioni immediate le cui conseguenze si vedranno forse fra migliaia di anni. In Karma Fails questo argomento non entra in maniera esplicita, ma con rimandi di diverso tipo (ad esempio come grafiche su tappeti da meditazione, frasi pronunciate da un istruttore di yoga o in forma di pietre da meditazione). L’Antropocene è soprattutto il contesto all’interno del quale articoliamo la nostra ricerca sulla meditazione: infatti, Karma Fails e Turborage sono i primi due capitoli di Turbulent Times. Nothing happens in nice weather, una ricerca a lungo termine su quello che sta succedendo».
Da che cosa siete ispirati, e avete un metodo di osservazione?
«Siamo incuriositi da tutto e peschiamo a strascico. Sull’ispirazione ci stiamo ancora lavorando: avevamo un’immagine molto poetica, ma non sono mai arrivate grandi muse o raggi di luce. In passato, per un’intervista, abbiamo cercato di descrivere da dove arrivano le connessioni che generano poi i nostri lavori: qualcosa scatta quando percepiamo una situazione paradossale. Ad esempio, quando leggi che, dopo che Berlusconi ha adottato Dudù le vendite dei barboncini in Italia sono aumentate del 20 per cento, inizi a chiederti se ci sia qualcosa che non va e ti convinci che forse è il caso di parlarne».
Mi raccontate la “partita di pallone” tra le arti che è in scena al MAMbo? Siete passati ad un ambito più nazionalpopolare?
«Emozioni Mondiali è prima di tutto un’esperienza di vita. Nel 2014 eravamo a Bari per una residenza artistica, dove abbiamo stretto un bellissimo rapporto di stima e amicizia con Marco Ceroni e Stefano Serretta, in un locale di Torre a Mare gestito da un barman sulla quarantina che aveva M2O a palla in tv, faceva gli shottini di vodka colorati a 1 euro, e il sabato mattina aveva sua mamma in cucina che faceva dei calamari ripieni da paura. Le tovagliette di carta del bar erano a tema mondiali di calcio e riportavano le immagini della gloriosa finale del 2006 con la frase “emozioni mondiali”. Ci siamo appropriati di questa espressione immediatamente, usandola tra di noi e poi anche, in forma di hashtag, nei post su Instagram, ogni volta che c’era qualcosa degno di nota. Non avevamo mai pensato di farne il titolo di un lavoro, tranne quando abbiamo iniziato a ragionare, ormai lo scorso anno, sulla possibilità di istituire un parallelismo tra il mondo del calcio e il sistema dell’arte, sulla scia di alcune cose che avevamo visto. La prima ragione che ci ha spinti in questa direzione è che volevamo in qualche modo condividere il senso di pressione esercitata dal sistema dell’arte sui suoi operatori. Non siamo mai stati in grado di pensare l’arte in termini puri, diciamo, ignorando la tensione interna al sistema tra produzione culturale e dinamiche di mercato. Soprattutto negli ultimi anni, con la crescita esponenziale di piattaforme per trading online e siti di ranking (ArtRank™ https://artrank.com/ ad esempio), ci è sembrato che si parli sempre più in termini di prestazioni, come se il sistema dell’arte fosse un assemblaggio di corpi e oggetti in competizione serrata, tesi a performare al meglio, morti contro vivi, giovani contro midcareer, un tutti contro tutti che spesso viene paragonato a una maratona: chi dura più a lungo ce la fa. Come non pensare allora allo star system dello sport, alla marea di statistiche e commenti che accompagnano le partite e che ritrovi anche dentro i giochi per computer e console? Nessuno in TCC è un appassionato di calcio, ma siamo stati grandi giocatori di Playstation in passato e Simone ha recentemente deciso di colmare un vuoto cosmico e tornare nel meraviglioso mondo della console SONY. Tra i vari giochi a cui ci siamo dedicati c’era ovviamente GTA, ma anche PES. E la cosa bella di PES, che FIFA a un certo punto ha abbandonato, era che potevi editare i giocatori e le squadre, creando ad esempio quella del campetto dietro casa e giocando contro le big della serie A, fino a cose più surreali, tipo la squadra coi giocatori più bassi o più alti del mondo e così via. PES2018, uscito lo scorso anno, manteneva queste caratteristiche e, nell’ottica di un progetto dove fosse possibile riflettere su questi parallelismi attraverso un coinvolgimento attivo dei visitatori, si prestava incredibilmente bene al nostro scopo. Inoltre, ci interessava il mondo del gaming per il fatto che il calcio è uno sport dove la mediazione gioca un ruolo fondamentale e ormai i videogiochi e l’esperienza dal vivo si compenetrano al punto che i giocatori professionisti di PES sono assunti da squadre come il Paris Saint Germain e, dall’altro lato, i giocatori di calcio professionisti giocano a FIFA, PES o giochi di management per studiare le tattiche e i movimenti dei loro avversari, o addirittura per analizzarsi in campo. L’idea di far giocare il pubblico è un altro elemento che ci attirava moltissimo, perché in qualche modo, nel momento in cui hai 20 squadre che impersonano movimenti o periodi artistici dal Rinascimento al PostInternet passando per le Avanguardie, la Biennale del 2003 o Documenta 13, e quando ciascuna formazione è composta di 20 giocatori che impersonano degli artisti reali nell’aspetto fisico e nelle loro caratteristiche di gioco, allora i visitatori sono messi in una posizione particolare, molto più simile a quella del pubblico dello stadio: non sono in difetto, ma hanno il pieno controllo dei loro idoli, sono parte integrante dell’opera e il loro coinvolgimento influisce nettamente sulle prestazioni e sulla qualità di un artista o un gruppo. È solo grazie alla loro presenza e alla loro empatia che questo lavoro può funzionare. Del resto, come diceva il fondatore di OOF, il calcio fa ogni settimana quello che l’arte ha sempre sognato di fare: crea emozioni. E, in termini antropologici, una partita di calcio rappresenta per certi versi un’esperienza molto più vicina alla tragedia greca di quello che pensiamo. Istituire un parallelismo tra il calcio e l’arte crea tanti livelli di lettura, tra i quali, ad esempio, anche quello dell’integrazione e della parità dei sessi. Ci teniamo, tuttavia, a precisare che i due mondi non aderiscono perfettamente. E forse è qui che sta il bello. Possiamo ripensare il ruolo del pubblico (e la sua importanza è data ad esempio dal fatto che una delle punizioni adottate nel calcio è la partita a porte chiuse, che può letteralmente uccidere una squadra), ragionare sulla posizione dell’artista, ma anche sull’adozione di stili e terminologia del mondo dell’arte nell’universo calcistico, al ruolo della parola come elemento di restituzione di un’esperienza e potremmo andare avanti a lungo. Uno degli aspetti più sorprendenti (sarà che ci sorprendiamo con facilità) è stato notare come questa operazione apparentemente banalissima e superficiale (un lavoro divertente), in realtà tocchi uno degli aspetti del sistema dell’arte che ci infastidisce maggiormente: il perbenismo diffuso di cui anche noi siamo vittima. Quante volte ci diciamo che manca una critica, che non ci diciamo mai le cose in faccia, che se una mostra non ci piace pugnaliamo alle spalle artisti e curatori a loro insaputa?). Quando giochi le partite di Emozioni Mondiali e, nel nostro caso, anche durante il making of, era da tempo che non assistevamo a manifestazioni così appassionate di odio o amore per l’opera di un artista o di un movimento. Sedersi e giocare libera la parola, come quando guardi una partita. Lo spettatore ha sempre qualcosa da dire, così, impugnando un controller siamo più che legittimati a lasciarci sfuggire, come è accaduto a qualcuno in mostra, che l’Arte Povera è una merda».
Quanto è importante essere cool se non si sa che dire? Chi è cool? E qual è la ricetta per diventare cool?
«Ripetiamo frequentemente che cool è quella parola un po’ tabù che pronunci quando non hai niente da dire. E da qui la scelta del nome. Non ci è mai piaciuto prenderci troppo sul serio. Il chi, come, e perché lo lasciamo ai nostri biografi, ma una prima risposta alla tua domanda è già qui sotto».
Matteo Bergamini