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23
gennaio 2019
L’intervista/ Vittorio Corsini
Personaggi
SPAZIO & PUBBLICI
In attesa di scoprire i nuovi progetti dell’artista, una chiacchierata sul piano “collettivo” della creazione
In attesa di scoprire i nuovi progetti dell’artista, una chiacchierata sul piano “collettivo” della creazione
di Silvia Conta
Vittorio Corsini, uno dei maggiori sperimentatori dell’arte pubblica (e non solo) in Italia, capta instancabilmente i segnali che vengono dalla collettività, li elabora mediante una pratica artistica profondamente radicata nel presente e attraverso le sue opere innesca processi sociali volti a rigenerare le relazioni tra le persone. Corsini, la prossima primavera, sarà autore di due nuove opere a Peccioli – luogo dove ha già lavorato a più riprese – e sarà protagonista di una mostra personale di progetti inediti nel nuovo spazio espositivo che Fabio e Paolo Gori apriranno all’interno della Gori Tessuti, a Calenzano (FI), il prossimo aprile. Lo abbiamo incontrato nel suo studio di Milano per una chiacchierata sui suoi progetti più recenti e per sapere dell’opera Odio, bloccata a un passo dalla realizzazione…
Partiamo dalla scorsa primavera, quando un tuo lavoro sembrava poter prendere corpo nella principale piazza di Milano…
«Era un progetto nato con Rossana Ciocca, volevamo portare uno dei miei tappeti in Piazza Duomo, avevamo ottenuto praticamente tutte le autorizzazioni per realizzarlo, poi all’ultimo il progetto è “rimasto impigliato” nelle maglie della burocrazia e non è stato possibile portarlo a compimento».
Che tipo di tappeto avevi pensato per un luogo così d’impatto?
«I tappeti sono un mio format nato nel 1998 in cui con la segatura colorata realizzo delle forme all’interno di un perimetro rettangolare: bandiere, scritte, planimetrie etc. Il significato dell’opera, tuttavia, non è dato dalla sua visione, ma dal suo attraversamento da parte del pubblico. L’opera è compiuta solo quando è distrutta dal continuo calpestio delle persone, questo è il punto fondamentale dei tappeti. Per Piazza Duomo mi ero posto la domanda “Quale parola acquista un valore sociale positivo nel momento in cui viene distrutta?”, così è arrivato il termine odio, che doveva essere scritto in bianco all’interno di un rettangolo rosso di 1500 metri quadrati, tutto in segatura colorata. Il tappeto era previsto per un sabato mattina – in occasione della “Giornata senza Muri” – e avevamo calcolato che con il transito dei passanti sarebbe stato cancellato in tre minuti circa. Per il pubblico sarebbe stata un’azione molto diretta e significativa».
Vittorio Corsini SINCRONICO 2018 legno, smalti, gommapiuma voce Maurizio de Giovanni Chiesa di San Giorgio, Cedri, dimensione ambiente courtesy Fondazione Peccioliper Ph. OKNOstudio
Che ne è stato del progetto?
«Lo stop quando la sua realizzazione era praticamente certa e tutto già organizzato è stato uno shock, anche perché le motivazioni non erano state subito chiarite. L’amministrazione ci ha proposto altri luoghi in cui creare il tappeto, ma non avrebbe avuto lo stesso significato, così la sua realizzazione in un’area pubblica si è arenata. Alcune settimane fa in un luogo privato, con l’aiuto di alcuni miei studenti, ho creato il tappeto – di dimensioni ridotte rispetto a quello pensato per la piazza – e è stato girato un video della sua distruzione mediante il calpestio del pubblico: non si è trattato di una performance, ma di una specie di esempio, mi sembrava importante far capire di che cosa si trattasse, di “documentare” come sarebbe stata quest’opera annientata dalla burocrazia, destino che accomuna tante iniziative nel nostro Paese».
Da questo lavoro emerge in modo molto chiaro uno dei cardini del tuo modo di intendere l’arte pubblica…
«L’arte pubblica è un veicolo, un mezzo, a volte chiamo le mie sculture “social machines”: il momento storico che stiamo attraversando è molto complesso e carico di tensioni di vario genere, così l’arte pubblica può prendere per mano chiunque, richiamare l’attenzione – non in modo provocatorio – di persone che passano per caso e stimolare una riflessione. Non sono un buonista, ma credo che sia necessario trovare una meta comune, una via per uscire insieme dalla melma in cui siamo immersi: l’arte pubblica non deve dimostrare nulla, ma contribuire a costruire un senso di socialità perché per cambiare la situazione è necessario unire le forze, tornare a incontrarsi».
Nella maggioranza dei casi l’arte pubblica non può essere scissa dalle amministrazioni pubbliche, sia per i finanziamenti che per le autorizzazioni. Che cose ne pensi?
«È un tema molto complesso, sia perché ormai, a causa degli enormi tagli ai fondi, pochissime amministrazioni possono realizzare progetti di questo tipo, sia perché c’è stato un momento in cui l’arte pubblica è stata fraintesa nella sua essenza e nella sua funzione. Da quest’ultimo aspetto sono derivati gravi errori: l’arte è stata usata per rattoppare l’incuria a cui sono stati abbandonati interi quartieri, così, in molti casi, soprattutto nelle periferie delle grandi città, sono state installate delle opere che non nascevano da un rapporto con il contesto. Queste operazioni si sono rivelate sterili per il territorio e profondamente negative per la percezione generale dell’arte pubblica. Ci sono, tuttavia, anche esempi molto positivi del rapporto tra arte pubblica e amministrazioni pubbliche, come a Peccioli».
Light Mood 2017 proiettori RGB, algoritmo dimensioni ambiente Courtesy Fondazione Peccioli per Ph. Mauro Negro
Dal 1992 hai lavorato spesso proprio a Peccioli, un paese di quasi cinquemila abitanti in provincia di Pisa, che dagli inizi degli anni Novanta porta avanti un progetto di arte pubblica molto ambizioso e di alto livello. In questo contesto lo scorso aprile è stato inaugurato “Voci”, un progetto permanente che ha unito sei edifici storici, sei scrittori italiani e altrettante tue installazioni. Dalla sua apertura ha suscitato molta curiosità e ha richiamato moltissimi visitatori, con un’affluenza giornaliera molto intensa. Che tipo di progetto è?
«Voci è nato un paio d’anni fa e ha unito il mio interesse per la parola – a cui attribuisco la stessa valenza della scultura – e la volontà del sindaco di Peccioli di valorizzare sei edifici storici disseminati sul territorio comunale, quattro dei quali lontani dal centro abitato. Nel 2007 con il lavoro Chi mi parla? a Luicciana, frazione del comune di Cantagallo, e nel 2011 con Xenia (2011) al Macro di Roma avevo già lavorato con testi di autori diversi e voci di narratori, da tempo volevo proseguire questa ricerca, così, assieme all’amministrazione, è nata l’idea di chiedere a sei scrittori italiani – Laura Bosio, Mauro Covacich, Maurizio de Giovanni, Romano De Marco, Ferruccio Parazzoli e Laura Pugno – di comporre un racconto a tema libero ispirato a uno dei luoghi scelti. Quando mi sono stati consegnati i testi li ho letti nel luogo a cui erano ispirati e poi ho creato le opere, che hanno assunto la forma di installazioni, sedute, ambientazioni, mai didascaliche rispetto ai testi e sempre con l’obiettivo di creare dei mezzi che permettessero ai visitatori di ascoltare i racconti, aiutandoli a disporsi in un certo stato mentale».
Che cosa rende Peccioli un contesto così fecondo per l’arte pubblica?
«Ha un’amministrazione lungimirante, il cui perno è Renzo Macelloni, sindaco dall’inizio degli anni Novanta, che per un periodo ha passato il testimone ad altri e ora è tornato. Lui ha coscienza del fatto che l’arte, oltre che favorire la visibilità del luogo, apporta sapere, cultura, crescita e innesca processi virtuosi. Ciò che lì è stato compreso è che l’arte pubblica non è decorazione urbana, ma deve nascere dal contesto, è fare in modo che le persone stiamo insieme per un motivo. A Peccioli, inoltre, l’apertura verso l’arte pubblica non è dettata da un impulso momentaneo ma è radicata. Qui c’è la pratica virtuosa di prendersi cura delle opere nel tempo, contribuendo così a costruire un rapporto positivo dell’arte con le persone».
Silvia Conta