La mostra di Vittorio Messina nei due Padiglioni del MACRO Testaccio, intitolata “Postbabel e dintorni” e curata da Bruno Corà, ha finito col rispecchiare perfettamente e potentemente il grave stato di crisi del museo comunale dovuto all’indecisione e alla noncuranza dell’amministrazione capitolina. Ecco allora il senso di un mondo in abbandono, di un cantiere perenne e mai concluso, un caos che neppure l’atto del costruire sembra poter fermare. L’artista ha deciso di riaprire la propria mostra dopo averla chiusa polemicamente per alcuni giorni in risposta alle promesse non mantenute dall’amministrazione comunale. Ne abbiamo parlato con lui allargando il discorso al progetto complessivo di “Postbabel e dintorni”, che continua anche nella mostra presentata fino al 25 maggio nella Kunsthalle di Goppingen.
A che cosa è dovuta la decisione di riaprire la mostra al MACRO?
«Dopo la caduta di una piccola porzione di una mia opera, ora accolgo positivamente la proposta di lasciare inalterato l’allestimento da me voluto, evitando le inaccettabili interferenze prospettate dall’addetto alla sicurezza della Sovrintendenza, e sostituite da una procedura che prevede di far firmare una liberatoria ai visitatori. Non sono invece soddisfatto dalle generiche assicurazioni che mi sono arrivate sul futuro del Macro, che continua ad essere privo di una direzione stabile, dell’indispensabile autonomia e di adeguate risorse umane ed economiche. Sulla base delle esperienze di questi ultimi mesi ho maturato quindi la convinzione di quanto sia inutile a questo punto la protesta e perfino il tentativo di perseguire un dialogo produttivo. La permanenza dello stallo venutosi a creare è la prova di questa impotenza generale e dell’incombenza di un processo di decadenza civile. Proprio in ragione di questo sentimento, nel rispetto che nutro per questa città e per i molti amici che me lo chiedono, riapro la mostra come proposta per una riflessione che spero utile sull’attualità della nostra condizione».
Ma secondo lei quello del MACRO è solo un problema di fondi?
«Assolutamente no. Si possono fare tante cose importanti anche con poche risorse, quando ci sono idee e strategie precise. Invece l’amministrazione capitolina non ha una visione e questo è grave».
Nel progetto “Postbabel e dintorni” c’è quasi un senso d’apocalisse imminente, anche se completamente purificato da qualsiasi sentimentalismo? Nella mostra di Goppingen, ad esempio, ci sono alcune citazioni dall’Apocalisse di Giovanni, dove la città celeste restituisce come nel sogno la sua pianta, le sue porte, la natura sublime dei suoi materiali.
«Non direi che domini una visione drammatica ed apocalittica. Io nel mondo di oggi non vedo una situazione chiara ma del resto è questa la condizione della nostra civiltà. “Postbabel” evoca una condizione nata in un tempo assai lontano e che non ci appartiene più. Noi non abbiamo più una visione armonica del mondo, siamo immersi in una Postbabel perenne. Da parecchio tempo la città ideale, con la sua unità di comunicazione, è saltata ed ora dobbiamo gestire le parti, i frammenti, le rovine. Tutto questo non è solo negativo, la mia è una constatazione di fatto. Ed è giusta l’idea di un cantiere perenne con uno stato d’allarme che va e viene. In parecchie mie opere c’è disincanto più che un senso apocalittico. Basta pensare all’uso degli ombrelli colorati in Habitat in una regione piovosa o ai colori di un’opera come Preparativi di nozze».
Al centro di molti suoi lavori, da circa trent’anni, ci sono gli elementi della Celle, a cui recentemente è stato dedicato un volume pubblicato da Gli Ori e sostenuto dalla Galleria Giacomo Guidi. Che cosa sono le Celle? Sono unità minime di sopravvivenza? Il modulo primario per una dimora necessaria ma sempre messa a repentaglio?
«Un po’ tutto questo e molto altro ancora. In termini specifici la cella è una porzione di spazio chiusa da limiti rigidi. Per me è un concetto generale, una dimensione fluttuante ed in espansione, anche la città è come una grande cella. Quest’ultima non ha un valore formale, ma esistenziale».
Nella mostra al MACRO sono particolarmente intense le grandi gouaches intitolate “Babel” dove lei sembra liberarsi da quella che a me sembra, talvolta, una cifra troppo dichiaratamente architettonica. Sono dense di una forza visionaria che sembra cercare, anche attraverso l’uso della scrittura, un nuovo, possibile senso. Perché non esporne un numero maggiore? C’è forse un suo pudore nei confronti di un fare più tradizionale?
«A me non interessano la gradevolezza, la piacevolezza né un discorso puramente formale. Questo rischio c’è invece nelle carte. L’elemento formale è una conseguenza di ciò che faccio a priori, raggiungendo un equilibrio strutturale».
Nel lavoro “Sette Poeti muti” c’è il senso di una memoria collettiva da salvare come testimonianza di civiltà?
«Sì, quest’opera è fortemente legata all’idea di civiltà e del resto tutti i lavori in mostra sono strettamente connessi tra loro. In quest’opera e nell’installazione Quelli che non ci sono, che chiude la mostra, uso la luce del neon perché essa ha un corpo, un valore plastico, e quindi un valore simbolico. I cavi elettrici che collegano i “poeti” sono come il sangue nelle nostre vene anche se portano l’energia elettrica, la necessità delle cose di stare insieme in una relazione intima. Ecco quello che mi interessa».
Quali sono le differenze fra la mostra del MACRO e quella di Goppingen?
«Tutte e due ruotano intorno allo “stato d’animo” di Postbabel e dintorni. La differenza sta negli spazi, che hanno nature opposte. Quello di Goppingen è uno spazio lindo, compatto, centrale, più semplice da affrontare rispetto a quello di Roma. Ho trovato una profonda sintonia con entrambe le sedi. Penso di essere riuscito a vincere sul potente spazio del MACRO arrivando al punto di modificarlo, di farlo sentire diverso attraverso i miei lavori. Insomma, i due spazi hanno identità opposte. E devo aggiungere che la stessa fortissima differenza la trovo anche nel modo di affrontare ed accogliere l’arte contemporanea in Germania ed in Italia. E noi non ne usciamo certo bene».