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08
giugno 2014
L’intervista/ Zineb Sedira Se il mare diventa la madre
Personaggi
Francese di nascita, ma algerina di origine, Zineb Sedira lavora con la fotografia, il video, gli oggetti e i lightbox. Con cui rielabora il passato e la continua scoperta del presente. E dove a fare da punti fermi sono di nuovo figure familiari. Come la madre, per esempio, che in francese si pronuncia come il mare. Dell’Algeria e del mondo da attraversare
Navi fantasma ridotte a carcassa, lambite dall’oceano, abbandonate al loro destino di solitudine e declino. Per Zineb Sedira (Gennevilliers, Francia 1963, vive a Londra) questi scheletri mastodontici raccontano anche storie di emigrazione, viaggi, speranze, impotenza, disastri ambientali. La prima volta che l’artista franco-algerina si è recata lungo la costa della Mauritania, nei pressi di Nouadhibou, nel Parco Nazionale Banc d’Arguin (paradiso degli uccelli migratori) è stato nel 2008. Da allora il lavoro sta procedendo con l’utilizzo di media diversi (film, fotografia, lightbox, oggetti). In occasione della mostra “Ici l’Afrique/Here Africa”, curata da Adelina von Fürstenberg e organizzata da ART for the World al Musée des Suisse dans le Monde – Château de Penthes, Pregny-Ginevra (fino al 6 luglio) espone quattro grandi fotografie a colori della serie The Lovers e Shipwrecks: the Death of a Journey II.
Altri lavori di questa serie sono presenti presso la galleria Riccardo Crespi di Milano in occasione della personale che si è appena aperta (fino al 19 luglio), insieme ad alcuni pezzi della serie Sweets Journeys, in cui lo zucchero di canna diventa metafora per un discorso politico e sociale sulla provenienza di questo prodotto e sul suo viaggio tra le varie culture. Il confronto tra culture diverse, del resto, è una tematica che appartiene alla storia personale e professionale della stessa Sedira, come dichiara in prima persona in una delle sue opere più celebri, Mother Tongue (2002), con cui ha partecipato anche alla mostra Global Feminisms al Brooklyn Museum di New York nel 2007.
Il tuo lavoro ruota intorno alla memoria, una memoria che è prima di tutto personale e familiare. L’Algeria dei tuoi ricordi, Paese dove sono nati e cresciuti i tuoi genitori. È legata alla tradizione orale, alle storie narrate da tua madre e da tua nonna. In che modo quest’esperienza è stata determinante nel fare di te – a tua volta – una storyteller?
«Sono cresciuta con i racconti di mia madre e mia nonna, che hanno sempre raccontato storie. Loro e anche mio padre non sono mai andati a scuola. Non scrivono e non leggono né in arabo, né in francese. Sia i miei genitori che mia nonna, infatti, sono cresciuti in Algeria quando il Paese era francese, perciò non era facile avere accesso alla scuola, specie per chi – come loro – vivevano in un’area rurale. Ecco perché molte storie venivano tramandate per via orale. Ricordo che durante le vacanze che trascorrevo in Algeria, mia nonna raccontava storie soprattutto la sera, prima di andare a dormire. Raccoglieva i ragazzini tutt’intorno a lei e iniziava la narrazione. Per me è stato molto importante ascoltare quelle storie, come pure quelle che raccontava mia madre in Francia. Così quando sono diventata anch’io madre, nel ’91, della mia prima figlia Zoulikha, ho iniziato a pensare all’idea di trasmissione da una generazione all’altra. Mia figlia è nata in Inghilterra, mentre io sono nata in Francia e mia madre in Algeria. Ho trovato molto interessante il fatto che ognuna di noi parlasse una lingua diversa e provenissimo da tre differenti culture, pur appartenendo alla stessa famiglia. E anche che fossimo tre generazioni di donne. Ho pensato di prendere la mia identità algerina e francese e di portarla ai miei figli che, essendo nati in Inghilterra, sarebbero diventati britannici o inglesi. Come artista ho iniziato a lavorare sull’idea della storia, della trasmissione. Avendo ascoltato molte storie – mi piaceva molto ascoltarle – ero diventata una buona ascoltatrice. Ma ho capito che raccontare storie é più importante che ascoltarle. Così sono nati lavori come Mother Tongue e gli altri che hai citato, che parlano anche della guerra d’Algeria, dell’emigrazione e di altre questioni. Molte mie opere sono collegate alla tradizione orale, ma sempre meno in relazione alla mia famiglia e non solo circoscritte alla storia dell’Algeria. Mi piace molto utilizzare la formula dell’intervista e dialogare soprattutto con le persone anziane, perché sono interessata alla fragilità della memoria. Certe volte, infatti, la memoria appare come l’unica memoria, quella autentica. Ma non é detto che sia così. Soprattutto i vecchi non ricordano nomi, fatti o altro. Diventa difficile, così, capire ciò che é corretto da quello che non lo é. Ecco, mi interessa tutto ciò che sta intorno alla memoria».
All’inizio del tuo percorso artistico – hai studiato a Londra alla Central Saint Martins School of Art, alla Slade School of Art e infine fotografia al Royal College of Art – l’arte è stata una forma terapeutica. In che modo?
«Sì, per me è stata una forma di terapia. Stavo studiando in Inghilterra, ma ero cresciuta in Francia. In Inghilterra sono stata in grado di essere me stessa e, se vogliamo, anche di parlare della mia “algerinità”. All’epoca, lì, gli studi sull’Algeria postcoloniale erano molto forti. Inoltre in Francia la politica é diversa, si può essere algerini o italiani, ma si é comunque francesi, mentre in Inghilterra le origini sono importanti. Mi sono sentita libera di parlare delle mie, come non lo sarei stata in Francia. Lì ho conosciuto anche molti artisti algerini interessanti, attori, scrittori, artisti visivi che godevano di grande rispetto. Albert Camus che, ad esempio in Francia è considerato francese, in Inghilterra è algerino e francese».
Che ruolo ha l’autoritratto in un lavoro come Self-Portrait or the Virgin Mary (2000)?
«In quel periodo facevo molte opere in cui ero presente, come lo era mia madre e mia figlia. In particolare, quel lavoro è nato quando andai in Algeria per la morte di mia nonna. Mia madre mi diede il velo da indossare. In Algeria il velo è bianco. Me lo misi e iniziai a giocarci. Attraverso le fotografie mi resi conto che sembravo la Vergine Maria, da cui il titolo dell’opera. C’era un pizzico di gioco e humour nel fatto che ricordassi che anche l’occidente cristiano fosse nato con il velo. La Vergine Maria ne é l’esempio. Non solo nell’Islam, anche nell’ebraismo e nella cristianità c’è una diversa forma di oppressione».
In Gardiennes d’images (Image Keepers) (2010) esplori questioni politiche come la guerra d’indipendenza algerina attraverso il lavoro del fotografo Mohamed Kouaci (1922-1996), che è stato combattente nel Fronte Nazionale di Liberazione. Parlare di lui indirettamente, attraverso un’intervista alla moglie Safia, ti ha permesso di accedere anche ad una sfera più emozionale?
«Lavorare a Image Keepers è stato molto emozionante, ho sentito questo lavoro molto vicino a me. Aver avuto accesso all’archivio di una persona che non c’era più mi ha posto di fronte a dei quesiti personali. Intanto, in quanto artista, mi sono chiesta quale sarebbe stata la sorte del mio archivio personale, che avrei lasciato ai miei figli o alla mia famiglia. Ero molto interessata anche a questo tipo di trasmissione. Tanto più quando si lascia qualcosa di prezioso per la storia del paese. Certamente il mio archivio non è così importante come quello di Kouaci sulla guerra d’Algeria. Comunque questa è stata la mia posizione di artista e filmaker nell’intervistare Safia. Da questo punto di vista il mio approccio è stato molto personale e autobiografico e, in questo senso molto legato alla mia sfera emozionale. D’altra parte Safia é una donna incredibile, ha una grande forza. Era importante, per me, avere la sua voce. Una buona parte del mio lavoro, infatti, è proprio quella di dare voce a persone sconosciute. Diversamente dai grandi nomi, è difficile ascoltare le storie della gente comune. Ecco perché ho intervistato anche i miei genitori. Safia, poi, appartiene anche a quella generazione di donne algerine che non indossano il velo. Erano libere, combattevano. inoltre è una persona molto modesta, semplice, gentile. Si, per me è stato importante dare voce a quest’esempio di donna che all’epoca era fragile e confusa».
La guerra civile ha cambiato il tuo modo di relazionarti all’Algeria?
«Quale guerra civile, quella del ’97? Ad ogni modo no, non ha cambiato il mio modo di relazionarmi all’Algeria. È stato solo difficile, perché non potevo tornarci. Era pericoloso. I miei genitori vivevano lì e non potevo andare a trovarli».
Quale è, per te, la relazione tra immagine fissa (fotografia) e immagine in movimento (video)?
«In un certo senso é la stessa cosa, perché il video non è altro che una sequenza di immagini. Tuttavia trovo che sia più interessante il video della fotografia. Dato che molto del mio lavoro è sul concetto di tempo e sulle storie orali, registrarle attraverso il mezzo del video e del film funziona meglio. La fotografia è una sorta di “bonus extra”, un’estensione del video».
Non ti piace pianificare il lavoro con troppo anticipo per poter lasciare spazio alla spontaneità. Anche l’imprevisto fa parte di questa visione?
«Assolutamente si. Il film nasce sempre nella fase di editing, quando esce fuori la storia. Naturalmente parto da un’idea che m’interessa, poi però filmo tantissimo e solo quando rimetto tutto insieme trovo il fine».
Il mare è un soggetto ricorrente nei tuoi video. In Saphir (2006), MiddleSea (2008) o A view to sea (2008), in particolare, diventa metafora dell’ambiguità del significato di radici, origine e distanza?
«Il mare, in francese la mer, si pronuncia come la mère cioè la madre. Quando sono tornata in Algeria e ho iniziato a lavorare su questo soggetto, non ho fatto altro che sostituire mia madre con il mare. L’Algeria è anche la terra dei miei genitori, il loro mare. Qualcuno mi chiese come mai avessi smesso di fare lavori autobiografici. Risposi che non avevo affatto smesso, era solo cambiata la metafora. Il mare era diventato la madre».