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10
dicembre 2014
Luca Rossi si racconta
Personaggi
In occasione della sua prima vera mostra, il blogger più noto, più discusso e per alcuni il più antipatico d'Italia ci parla del suo lavoro e dei suoi obiettivi. Anche utopici
Luca Rossi esce allo scoperto, con una mostra vera e propria che avrà due appuntamenti, uno ad Imola, tra pochi giorni, il 13, e un altro durante ArteFiera. Questo progetto non è che l’ultimo degli esempi, oggi sempre più frequenti, in cui e l’artista si sostituisce al curatore, figura che oggi appare un po’ appannata mantenendo comunque un forte appeal, specie tra i giovani che si avvicinano all’arte.
Ma Luca Rossi non è solo un artista e un curatore, è conosciuto soprattutto come un blogger fortemente critico verso il mondo dell’arte. In occasione della sua mostra mi ha proposto di fare una chiacchierata. L’abbiamo iniziata un po’ di tempo fa e via via si è allungata, fino a diventare un’estesa conversazione in cui io, come spesso faccio, mi sono messa un po’ di lato per cercare di capire le ragioni dell’artista. Vi presentiamo il risultato di questo confronto. Buona lettura.
Nel presentare le ragioni della tua prossima mostra, sostieni che il tuo obiettivo sia “diminuire la distanza tra arte contemporanea e pubblico”. Pensi che realmente il problema maggiore che ha oggi l’arte sia la mancanza di un pubblico formato a capirla?
«Prima di rispondere alla tua domanda vorrei sottolineare come oggi l’arte contemporanea possa essere potenzialmente una disciplina capace di presiedere e aiutare ogni altra disciplina e ambito umano. Infatti sempre di più, con la crisi delle democrazie e del sistema rappresentativo, l’unico spazio politico agibile e nel quale sia possibile un cambiamento è lo spazio che abbiamo intorno a noi, e quindi il nostro spazio micro e locale. Per muoversi in esso bisogna prima di tutto “saper vedere”. E l’arte contemporanea, come disciplina onnicomprensiva, può diventare una straordinaria palestra-laboratorio dove allenare e sperimentare la “vista”, intesa in senso ampio. Bruno Munari diceva “saper vedere per saper progettare”, e bisogna pensare al “progetto” non solo come opera, ma anche come la capacità di trovare un nuovo lavoro o di impostare una vita sentimentale positiva e costruttiva. Credo che la radice del problema, in ambito culturale, sia di tipo formativo. Prima di formare e interessare un pubblico bisogna formare critici, artisti, operatori e divulgatori capaci e motivati. Invece, soprattutto in Italia, spesso ho la sensazione che i primi a non credere nell’arte contemporanea siano proprio gli stessi addetti ai lavori. Non si tratta di ricercare un pubblico da stadio, ma che possa andare oltre il dato prossimo allo zero attuale. Penso ad un pubblico simile al cinema d’essai che oggi, tolti addetti ai lavori, curiosi e collezionisti, l’arte contemporanea non ha».
Questo mi sembra un problema reale, ma appartenente alla modernità: il pubblico, la formazione eccetera. In che senso la tua mostra “Speaking about”, farebbe (ti cito testualmente) “i conti con i fantasmi della postmodernità”, che dici di affrontare “frontalmente e a mani nude”?
«La postmodernità e le esigenze delle comunicazione rendono spesso l’arte contemporanea come una tecnica raffinata per fare pubblicità ad un’istituzione, sia essa pubblica o privata. In questo non c’è nulla di sbagliato ma il rischio è di vedere sempre la stessa mostra che assomiglia tanto ad un “luna park per adulti” dove gli spettatori vengono coinvolti con l’interazione fisica, la provocazione o si scoprono colti e sofisticati nello sbirciare sull’ennesimo reperto d’archivio. Le opere, concepite per la mostra “Speaking About” che presenterò ad Imola, sono state pensate per superare questa dimensione da “luna park”, che alla lunga diventa noiosa e fine a se stessa. L’ideazione e la produzione delle opere è avvenuta realmente “a mani nude”, affrontando in modo diretto i fantasmi del modernismo e del postmodernismo. In questo senso la mostra non si può dire né moderna né postmoderna. Potremmo dire “altermoderna”, secondo la definizione che Nicolas Bourriaud fornisce nel suo libro Il Radicante (Postmediabooks, 2014)».
In che consiste l’atteggiamento “altermoderno” che dovrebbe informare questo progetto e che cosa intendi con questo termine? La fragilità di cui hai parlato annunciando il tuo progetto mi sembra appartenga molto al mondo italiano dell’arte contemporanea e al nostro Paese intero. Non per essere autoindulgenti, ma purtroppo ci siamo tutti dentro.
«Se il moderno può essere sintetizzato con “l’idea rivoluzionaria” il postmoderno può essere visto come il “remix originale” che reagisce e supera il moderno stesso. Dopo il culmine anni 90, e dopo la data simbolo del 2001, siamo come impantanati nel postmoderno e in una postproduzione degenerata. Le opere della mostra “Speaking About” sono state realizzate affrontando moderno e postmoderno con uno spirito che potremmo chiamare “antifragile”. Ossia affrontando frontalmente, ma con spirito sincero, generoso e giocoso, la crisi della postmodernità, che è la crisi che viviamo ogni giorno, ma è anche la crisi che sta vivendo la rappresentazione artistica, intesa come palestra e laboratorio per allenare e sperimentare la “vista”. E quindi il senso che presiede ad ogni attività umana».
Noto un passaggio significativo in questa tua proposta di oggi: dalla critica dura e spesso demolitrice a una posizione costruttiva, ma rilevo un problema. Ho condiviso molte delle posizioni che hai espresso in questi anni, una cosa però non mi è piaciuta molto: la tua classifica, artista per artista, della scena italiana, alla quale hai dato anche dei voti che, mi sembra, non abbiano mai, o quasi mai, raggiunto la sufficienza. Non ti sembra di esserti chiamato troppo fuori, di essere stato troppo a lungo con il ditino alzato a impartire lezioni, per entrare ora nel vivo della platea con una mostra? È possibile essere “costruttivi”, operare in un ambito che hai condannato senza appello? Quanto meno significherebbe che sei l’unico in grado di fare un buon lavoro. C’è qualcosa che non torna, insomma.
«La mia critica non è mai stata demolitrice, ma costruttiva, avendo sempre argomentato e indicato vie alternative. La mia non è stata una classifica, ma una ricognizione argomentata e opinabile sugli ultimi 20 anni di arte italiana. Alcuni giudizi hanno raggiunto e superato la sufficienza, ma i voti bassi sono soprattutto una prudenza nei confronti della storia dell’arte e di artisti spesso giovani e molto giovani, che hanno ancora percorsi aperti e che sono in divenire. Quello che però vorrei sottolineare con forza è che questa ricognizione ha significato tirarsi DENTRO la platea contemporanea e non certo tirarsi fuori. Si tirano fuori tutti quei critici e curatori che cercano di compiacere tutti, senza la voglia e la capacità di argomentare luci e ombre delle opere. Costoro sono una madre matrigna che si tira fuori dalla gestione dei figli. La mia ricognizione è stato un atto d’amore, estremamente faticoso (penso di aver presentato quasi 200 artisti) e totalmente gratuito. Non ho certo la pretesa di essere l’unico a fare un buon lavoro, sicuramente sono l’unico oggi in Italia che da almeno sei anni cerca di uscire dai binari prevedibili del sistema dell’arte, che sono sistematicamente binari morti. La considerazione che ha avuto l’arte italiana dopo Arte Povera, Transavanguardia e il fenomeno Cattelan, giustifica le mie parole».
Sicuro che oltre a te non ci sia stato nessun altro tentativo di “uscire dai binari prevedibili del sistema dell’arte”? Recentemente a Roma c’è stato un progetto totalmente autogestito e realizzato in uno spazio prestato che ha coinvolto molti artisti e richiamato molto pubblico. Mi riferisco a “There is no place like home”. Prima ci sono stati i gruppi creati da Cesare Pietroiusti, da Luigi Presicce, più recentemente Aria. Tutti insignificanti, tutto da buttare?
«Non mi permetterei mai di dire che ci sono esperienze e cose da buttare. Ma queste iniziative non affrontano realmente le tre problematiche che affliggono la scena italiana e, in parte, quella internazionale: l’assenza di una critica d’arte militante, un riflessione profonda sul linguaggio e la necessità di un nuovo rapporto con il pubblico. Prima di tutto una rondine non fa primavera, servirebbe infatti un contesto critico vitale e continuativo dove collocare iniziative come quelle che citi. Servirebbe un confronto critico che potesse aiutare nel fare le differenze tra le diverse iniziative e approcci. Quali strumenti abbiamo per dire che il mio progetto sia migliore o peggiore delle esperienze che hai citato? In secondo luogo le iniziative che indichi propongono linguaggi ampiamente standardizzati che partecipano o vorrebbero partecipare alle pratiche per le quali vorrebbero essere alternativi. In terzo luogo questi eventi non cercano una relazione con il pubblico che non sia il grande party dove fare festa e aperitivo con tanti amici. Tutte cose sacrosante, ma che non portano la scena italiana fuori dalla secche in cui si trova».
Non so come fai ad essere così sicuro di queste affermazioni, a meno che tu non sia stato coinvolto direttamente in tutte. Torniamo a te, a differenza di questi esempi, il tuo lavoro incarnerebbe invece lo spirito fragile e altermoderno?
«Ti faccio un esempio concreto, preoccupato che il mio ragionamento possa sembrare troppo fumoso. Alfredo Cramerotti, oggi direttore del Museo Mostyn in Scozia e già tra i curatori di Manifesta, nel 2010 concluse così una sua recensione ad un mio progetto: “A dirla tutta, I’m not Roberta (un progetto del 2010 di Luca Rossi, ndr) mi ha fatto più pensare che non decine di altri progetti artistici che ho visitato dal vero”. Il progetto I’m not Roberta avvenne al Whitney Museum di New York e poi, in modo del tutto inaspettato, travalicò le mura del museo per investire altre sedi esterne. Il progetto venne realizzato a budget zero, continua tuttora e può essere fruito da chiunque, rimanendo immobile dove si trova. Ora vorrei riportare due brevi passaggi dove Nicolas Bourriaud fa intuire a cosa si riferisca il termine “altermoderno”, nel suo libro Il Radicante edito in Italia nel 2014:
“È quanto sta avvenendo in quest’inizio di XXI secolo, in cui predominano in tutti i campi del pensiero e della creazione il transitorio, la velocità e la fragilità, instaurando quello che si potrebbe chiamare un regime precario dell’estetica […] Invece che subirla o resistervi per inerzia, il capitalismo globale sembra aver fatto propri i flussi, la velocità, il nomadismo? Allora dobbiamo essere ancora più mobili. Non farci costringere, obbligare, e forzare a salutare la stagnazione come un ideale. L’immaginario mondiale è dominato dalla flessibilità? Inventiamo per essa nuovi significati, inoculiamo la lunga durata e l’estrema lentezza al cuore della velocità piuttosto che opporle posture rigide e nostalgiche. La forza di questo stile di pensiero emergente risiede in protocolli di messa in cammino: si tratta di elaborare un pensiero nomade che si organizzi in termini di circuiti e sperimentazioni, e non di installazione permanente, perennizzazione, costruito. Alla precarizzazione dell’esperienza opponiamo un pensiero risolutamente precario che si inserisca e si inoculi nelle stesse reti che ci soffocano”.
I’m not Roberta è un progetto “risolutamente precario”, perché si basava su una preghiera quotidiana che ho eseguito ogni gionro con l’inizio della Biennale del Whitney del 2010, e che si proponeva di far accadere qualcosa di significativo rispetto la Biennale stessa e rispetto gli Stati Uniti e la loro storia. Mi sono posto in una situazione risolutamente precaria ed estremamente fragile (intervenire in un museo mantenendo da esso la distanza) che, invece di opporsi alla fragilità e alla precarietà portate dal capitalismo globale, esagerava ed esorbitava fragilità e precarietà stesse; un atteggiamento che ho definito al tempo “cretino”, dalla radice della parola “cristiano”, come colui sempre pronto a porgere l’altra guancia. Il progetto si poneva in una situazione di assoluta indeterminatezza e difficoltà, e davanti al problema poneva realmente l’altra guancia. Alla velocità dei flussi, sempre pronta a colmare grandi distanze, opponevo una risoluta immobilità, in cui però opera e spettatore vivevano un “nomadismo velocissimo”, potendosi trovare sempre nel medesimo luogo; alla crisi del capitalismo globale opponevo un progetto a budget zero e fruibile gratuitamente da chiunque in tutto il mondo. Successivamente per tutta la durata della Biennale del Whitney avrei ricercato, nel materiale che gli utenti postavano su internet, qualcosa di anomalo che fosse successo all’interno del Whitney Museum. Così facendo, ho trovato effettivamente una traccia che dal museo mi ha portato fuori, delineando una coincidenza di interventi significativi per gli Stati Uniti e per la riflessione che io stesso avevo deciso di fare sul concetto di velocità e distanza. In questi sei anni, tramite il blog Whitehouse, ho presentato più di 20 progetti che con prospettive e strategie differenti affrontano e sviluppano questo atteggiamento altermoderno».
Bene, ma le prime sono parole di Bourriaud, che peraltro mi ricordano un’altra strategia difensiva e di attacco che l’arte ha messo in piedi contro l’invadenza del capitalismo e il suo tentativo di imbrigliare il pensiero libero. Mi riferisco ad Appunti per una guerriglia con cui Celant presenta nel 1967 l’Arte Povera. Niente, di particolarmente nuovo, quindi: l’arte deve sempre giocare di attacco e di difesa verso il pensiero dominante e omologante. E I’m not Roberta è del 2010.
«Lo strumento del blog è al centro del progetto I’m not Roberta che quindi rappresenta necessariamente un’evoluzione inedita rispetto a strategie e percorsi come quelli dell’Arte Povera. L’Arte Povera reagisce certamente alla tendenze negative del capitalismo, dicendo – sostanzialmente- che anche le cose che abbiamo in garage e in cantina (intese anche come luoghi della nostra mente) possono avere una grande forza e un grande valore poetico. Ma poi anche l’Arte Povera partecipa fortemente alle dinamiche più prevedibili del capitalismo, non ponendosi alcun problema sull’opera d’arte come feticcio e prodotto di lusso, caricato più o meno arbitrariamente di valore e quindi di prezzo. Nei progetti presentati dal blog Whitehouse in questi anni la natura dell’opera d’arte reagisce concretamente e radicalmente alla stato di crisi. Basti pensare che opera e spettatore possono sempre essere nello stesso luogo, pur rimanendo immobili; basti pensare che il possesso e la fruizione dell’opera d’arte sono totalmente gratuiti. Ad Imola presenteremo opere d’arte maggiormente convenzionali, che possono essere considerate la declinazione “pret a porter” di questo percorso».
L’Arte Povera è entrata in quelle che tu definisci le “dinamiche più prevedibili del capitalismo” molto tempo dopo la sua comparsa, non certo all’inizio. A parte questo, che dici di tuo e che dici di nuovo oggi, che magari esca dal blog, e anche da una certa autocelebrazione che hai fatto attraverso esso? Spesso mi è parso che nei tuoi interventi usassi troppe parole e che parlassi troppo di te come una figura solitaria, rivendicando una radicale diversità dal resto del mondo dell’arte (i voti agli artisti e il “tirarsi fuori” rientrano, appunto, in questo atteggiamento). Se sei un artista dovresti anzitutto parlare con le opere. Non pensi?
«Se critico qualcosa argomentando il mio punto di vista, mi dicono che sono demolitore, se critico presentando vie alternative, mi dicono che sono “autocelebrativo”. A questo punto cerco solo di proseguire per la mia strada con tutti coloro che vorranno dialogare e accompagnarmi. La mia opera “parla” e prosegue da sei anni (c’è un articolo di Fabio Cavallucci proprio su questa rivista che risale al 2009 e che lo può provare). Ma quest’opera parla solo ad una platea di addetti ai lavori, perché nella platea italiana ci sono solo loro. Basta guardare alcune ricerche fatte da alcuni partiti politici o guardare semplicemente la platea che in Italia assiste a mostre, talks e presentazioni di arte contemporanea: solo addetti ai lavori, amici e pochi curiosi. Gli addetti ai lavori hanno tutto l’interesse ad ignorare il mio lavoro, che li costringe a mettersi in discussione e a rivedere il proprio ruolo. Non a caso la politica ignora quello che consideriamo il “migliore” sistema dell’arte, non a caso i musei di arte contemporanea tendono a chiudere e gli artisti formati in Italia sono assenti dalla scena internazionale. Nel lavoro fatto in questi sei anni possiamo trovare una certa idea di museo e un certo ruolo di artista che non sono necessariamente nuovi ed innovativi, ma che sono profondamente consapevoli rispetto al nostro tempo e allo stato di crisi generalizzato che stiamo vivendo».
Pensi che lo stato di crisi generalizzata che stiamo vivendo abbia aiutato o peggiorato questo scenario?
«Penso che la crisi ed in particolare lo scoppio della bolla speculativa nel mercato dell’arte contemporanea, abbiano sicuramente aiutato. Finalmente possiamo tornare a guardare le opere, senza interferenze e preconcetti, come se le stessimo guardando per la prima volta. L’impostazione della mostra “Speaking About” (con due inaugurazioni ad Imola il 13 dicembre e il 22 gennaio, durante Arte Fiera Bologna) vorrebbe rappresentare una ripartenza e una speranza che vuole ripartire dalle opere d’arte».
“Speaking about” sarà l’occasione per svelare la tua identità?
«Lo scopri se vieni»
Vorrei sapere da LR come potrò vedere le sue de mostre interventi, standomene immobile a casa e senza pagare nulla.
grazie
@Coda: se leggi per bene l’intervista troverai la risposta alla tua domanda.