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24
febbraio 2017
Ma come si sta con Trump?
Personaggi
Abbiamo chiesto di raccontarci la loro esperienza a quattro italiani che svolgono professioni creative e che hanno scelto di vivere a New York, nonostante Trump. Ecco le loro storie
Le motivazioni per andarsene e quelle per rimanere. Con in mezzo l’iter burocratico per ottenere il visto professionale, tra aspettative, conferme e qualche delusione. Un artista, un’attrice, una curatrice d’arte e una gallerista rispondono alle seguenti domande:
1) Per quale motivo hai deciso di trasferirti in America e continuare qui il tuo percorso professionale?
2) Che cosa ti hanno dato gli Stati Uniti e come è cambiata la tua professione?
3) Qual è stato l’iter per ottenere il visto professionale?
4) Hai deciso di rimanere in America nonostante Trump?
Danilo Correale/artista
Danilo Correale è nato a Napoli nel 1982. Nel suo lavoro analizza gli aspetti della vita umana, come l’alternanza lavoro/tempo libero, e la dimensione del riposo. Dall’inizio di quest’anno è ricercatore presso la Columbia University di New York. Ha esposto, tra gli altri, alla 16a Quadriennale d’Arte di Roma, alla Triennale di Milano, al Museo Madre di Napoli, oltre a Manifesta 8 e alle Biennali di Istanbul, Mosca e Kiev.
1) «Ho deciso di puntare sugli Stati Uniti (in particolare New York), per seguire una ricerca sull’ accelerazione della struttura economica che ci governa e sul sonno come resistenza all’espropriazione del tempo. Poi ci sono state una serie di residenze come l’Art & Law, Skowhegan e l’ISCP studio program che sto frequentando dopo aver vinto il Premio New York 2016/2017. La precisazione da fare però è legata a New York, raccontata come luogo dove tutto è a portata di mano. In realtà è laboratorio dove l’integrazione, l’arte, i drammi del contemporaneo (come la gentrlfication e le distopie del reale) sono presenti nelle discussioni, oltre alla constatazione di un futuro già presente ma ad uso di pochi. Ma NYC è anche un luogo dove si costruiscono nuove strategie rispetto ai modelli di governance, dove ci si può perdere e sparire ma dove è facile anche sentirsi parte di qualcosa di più grande. Dove le lotte, soprattutto quelle alle porte, sono solo all’inizio».
2) «Credo sia cambiata indipendentemente dagli States; sicuramente negli ultimi anni ho sentito sempre più il divario tra il mio lavoro e il modello dominante in Italia, dove si fa ancora fatica a liberarsi della tradizione dell’Arte Povera, della Transavanguardia e dove i tentativi di portare discorsi critici nelle istituzioni trovano solo una nicchia di sostenitori. Ma esistono fortunatamente delle eccezioni».
3) «Il Visto professionale (O1) è un processo complesso e ovviamente burocratico che per diverse ragioni richiede il supporto di un legale (esistono collettivi che aiutano chi non ha le possibilità economiche). Sono richiesti molti requisiti (O sta per Outstanding) ma se c’è la volontà e motivazione è decisamente fattibile».
4) «Credo la decisione di rimanere (ovunque si rimanga) equivalga a quella di lottare, tutti i giorni, non solo contro i poteri egemonici ma contro le ingiustizie, i fascismi che si nascondono nelle fitte reti di relazioni con cui dialoghiamo giornalmente nel mio lavoro come nella mia vita è la praxis a delineare il mio impiego, Mr. Trump o non Mr. Trump, essere impegnati a mostrare le ragioni della critica o la critica della ragione non è altro che la sfumatura di uno degli stili della militanza. Resto perché dove c’è ingiustizia c’è resistenza ed è questo ci rende vivi».
Carlotta Brentan | Attrice
Carlotta Brentan studia all’American Academy of Dramatic Arts di New York. Come attrice, si occupa sia di teatro americano, sia italiano in lingua: dal 2011 fa parte di Kairos Italy Theater, principale compagnia teatrale italiana a New York. È Executive Producer del festival In Scena!, manifestazione dedicata alla cultura italiana che porta attori e autori italiani a New York per due settimane di spettacoli. Ha collaborato con importanti registi, attori e compagnie teatrali Off-Broadway tra cui Neil LaBute, Jim Parrack, Nylon Fusion Theater Company.
1) «Mi sono trasferita a New York per frequentare una delle accademie di arte drammatica più prestigiose al mondo. Avevo già vissuto e studiato tra Italia, Francia e Inghilterra e sognavo l’America: dopo molte ricerche e una serie di provini, sono stata presa a studiare all’AADA e non ho esitato. Oggi mi occupo di teatro, sia americano che italiano (sempre in lingua inglese) e credo che New York sia la città ideale per la mia professione».
2) «Mi hanno dato tutto. Un’educazione accademica “world class” e un’educazione “pratica” che continua ad arricchirsi di giorno in giorno lavorando in questo business. Ho mosso qui i primi passi da attrice e sviluppato i progetti che ho portato avanti negli ultimi anni, così come quelli che farò nel futuro prossimo».
3) «Il visto professionale per noi attori che lavoriamo “freelance” non è sponsorizzato da una compagnia specifica, come accade per altre professioni. Viene invece ottenuto dimostrando di essere degli artisti unici -il termine esatto è “straordinari”- secondo criteri ben delineati. Bisogna dimostrarlo con recensioni, pubblicazioni, lettere di supporto da grandi professionisti nel mondo dello show business, e molte offerte di lavoro».
4) «Si, perché gli artisti hanno e continueranno ad avere un ruolo fondamentale».
Eugenia Delfini | Curatrice
Eugenia Delfini è nata a Roma nel 1983. Come curatrice, si è formata allo IUAV di Venezia e fino al 2013 è stata curatrice per l’associazione no-profit Sottobosco, sperimentando processi partecipativi tra arte e vita quotidiana, in stretto contatto con i contesti, gli artisti e i cittadini. Si è trasferita a New York nel 2015 e qui ha lavorato prima come assistente curatoriale per la Catinca Tabacaru Gallery, poi come curatore residente per Residency Unlimited, con cui collabora ancora da free lance.
1) «Quando mi sono trasferita a New York, due anni fa, stavo lavorando per un tour operator e così i primi sette mesi li ho passati vendendo pacchetti turistici agli americani che volevano visitare il Bel Paese. Dopo non molto capii che la città offriva le opportunità che in Italia non avevo trovato, ed è così che ho iniziato a lavorare per una galleria nel Lower East Side».
2) «Vivere a NY significa essere continuamente esposti alla diversità in termini fisici, alimentari, comportamentali e di pensiero, e di certo questo incide significativamente nella mia vita qui, ed è ciò che mi sta aiutando a rendere originale il mio modo di lavorare come curatrice. Dall’altra parte, vivere in America comporta un grosso investimento emotivo ed economico, specialmente ora che Trump si è insediato. Nell’ultimo anno, oltre all’esperienza in galleria, ho lavorato per la NY Art Book Fair, mentre in estate sono stata selezionata per partecipare a una residenza presso Residency Unlimited a Brooklyn, che ho svolto grazie al supporto di una borsa di studio del GAi – Giovani artisti italiani. Tramite il programma ho avuto l’occasione di allargare il mio network e di moderare un panel a proposito del potere narrativo della scultura astratta insieme a tre artisti di tre generazioni differenti».
3) «È stato molto complesso e difficile. Per ricevere un O1, ovvero un visto lavorativo di tre anni valido per artisti o curatori, bisogna presentare un portfolio che illustri le tue capacità “straordinarie” e ripercorra il tuo percorso fino ad oggi, più una decina di lettere di referenze. Ci vuole almeno un anno per completare la pratica, e ora sembrerebbe che i tempi di attesa stiano aumentando».
4) «Avevo deciso di rimanere in America prima che Trump si insediasse e probabilmente, già prima della sua elezione, diversi fattori avrebbero potuto farmi cambiare idea sul rimanere qui, basti pensare al costo della vita, alla situazione sanitaria e alla questione legale, nonché all’investimento emotivo che richiede costruirsi una nuova famiglia dall’altra parte del mondo. La politica di Trump non sta toccando solo alcune specifiche comunità e minoranze come sembra, ma riguarda tutti, per questo, ora che la mia vita è qui, mi sembra doveroso esserci sostenendo la resistenza».
Francesca Cigola | Gallery Manager
Francesca Cigola ha studiato Architettura al Politecnico di Milano, successivamente si è specializzata in Art Collections Management presso la New York University. Attualmente è Gallery Manager della Ierimonti Gallery di New York e collabora con istituzioni e spazi not e for profit nell’organizzazione di mostre con lo studio m[h]ouselab, di cui è co-fondatrice. È curatorial director di CA+AT un programma che organizza viaggi di ricerca per architetti, designer e artisti a livello internazionale».
1) «Ho sempre considerato il viaggio e l’esperienza all’estero come tappe fondamentali nel mio percorso formativo e professionale. Gli Stati Uniti sono stati un obiettivo a cui ho sempre lavorato, fin dal mio primo viaggio di ricerca con il Politecnico di Milano nel 1999 quando ho avuto l’occasione di esplorare due città molto attive nel campo della ricerca architettonica e urbana e delle istituzioni culturali: New York e Chicago».
2) «Gli Stati Uniti sono stati fondamentali innanzitutto nello stimolare nuove riflessioni sulle modalità di lavoro e sui rapporti interpersonali, che mi hanno spinto a loro volta a creare un percorso professionale focalizzato sulla crescita individuale, sempre nel rispetto e nell’interesse del contesto lavorativo in cui mi sono inserita. Gli Stati Uniti hanno sicuramente fornito un terreno fertile per questa crescita, grazie alle opportunità di collaborazione che si sono presentate con privati e istituzioni, soprattutto in una città come New York, sempre aperta ad accogliere nuove idee da diversi background culturali».
3) «Inizialmente è stato molto complicato inizialmente anche a causa della progressiva diminuzione del numero di visti di lavoro rilasciati negli ultimi dieci anni. Con perseveranza e, devo ammettere, un po’ di fortuna, si è concluso con l’ottenimento di un permesso di soggiorno permanente (green card)».
4) «Si. Gli Stati Uniti che hanno votato Trump sono gli stessi che Obama ha governato negli ultimi otto anni. Rimango comunque, anche per conoscere una parte di paese con cui forse finora non ho fatto i conti».
Eleonora Minna