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22
marzo 2016
Massimo De Carlo/Grandi gallerie crescono
Personaggi
Parla il big boss dell’arte contemporanea italiana, il giorno dopo l’apertura della galleria a Hong Kong. In attesa di inaugurare la nuova sede di Milano
Milano, Londra, Hong Kong. E ancora Milano. Il “big boss” dell’arte contemporanea ha ancora voglia di sfidarsi. Di questo passo potrebbe aspirare ad essere uno dei simboli di Milano. Dopo la luccicante madonnina, il goloso panettone, la MDC, alias galleria Massimo De Carlo. Una quasi trentenne dalla chiara fama, in Italia come all’estero, grazie anche al progetto di auto-esportazione (chiamiamolo così) avviato nel 2009, con l’apertura di un (prima temporaneo, poi definitivo) distaccamento londinese. Ma ora ha messo a segno il colpaccio con una missione stile Marco Polo. La galleria meneghina ha piantato bandiera su suolo cinese, precisamente ad Hong Kong, inaugurazione ufficiale ieri, ampliando in pianta stabile il proprio bacino d’utenza. Senza però voltare faccia all’Italia. Anzi, se qui De Carlo non lascia, raddoppia. E, giusto per marcare ulteriormente il territorio, sempre a Milano, fissando l’appuntamento al mese prossimo. Una sola galleria, quattro sedi. Abbiamo pizzicato il suo fondatore nel bel mezzo di queste filiazioni.
Iniziamo dall’Italia, da Milano, dove il 6 aprile sarà ufficialmente inaugurato il nuovo spazio espositivo. La galleria Massimo De Carlo non trasloca, ma raddoppia. Una scelta legata principalmente a quali fattori?
«È un anno molto importante per la galleria. Talvolta le occasioni arrivano senza un grande preavviso e vanno colte immediatamente. Era qualche tempo che pensavo che la galleria di Milano a Lambrate avesse bisogno di un fratello, un luogo con lo stesso DNA ma con una personalità differente, che potesse parlare agli artisti, ai collezionisti e al pubblico in maniera diversa. Quando si è palesata l’opportunità di convertire l’ex-biblioteca del piano nobile di Palazzo Belgioioso, un luogo storico per Milano e per i milanesi, in una galleria, ho capito che sarebbe stato il posto perfetto per iniziare questa nuova avventura. La nuova galleria sarà uno spazio espositivo quasi meditativo, dove poter apprezzare al meglio il lavoro degli artisti. È esattamente ciò di cui il mondo dell’arte contemporanea sembra di aver bisogno in questo momento».
Nell’attuale sede di via Ventura, nel cuore “creativo” di Lambrate, il pubblico ti deve venire a cercare. Al contrario, la nuova sede sarà in pieno centro, a Palazzo Belgioso. E qui il contatto viaggia su altre lunghezze d’onda. Anche una galleria affermata come la sua, spesso citata come migliore galleria italiana, necessita di maggiore visibilità nella stessa città che l’ha vista nascere e crescere?
«La contemporaneità ci obbliga a lavorare maggiormente sull’idea di visibilità rispetto al passato. Non è certo per vanità, ma semplicemente una evoluzione del sistema in una direzione più orizzontale, che non fa altro che seguire ciò che accade nella società. Mi piace l’idea di sfidarmi in un nuovo rapporto con la città di Milano, senza dimenticare mai che Milano è un punto di partenza, da cui continuare a lavorare in tutto il mondo».
Per questa doppietta milanese ha scelto una location indubbiamente prestigiosa. E centrale. C’è da aspettarsi uno spostamento di quartier generale? È un’eventualità che ha preventivato?
«L’apertura di Massimo De Carlo, Belgioioso è un tassello di una strategia più ampia e a lungo termine, di cui ovviamente fanno parte sia la programmazione della galleria di Londra che la nuova apertura ad Hong Kong. L’obiettivo è offrire maggiori opportunità agli artisti che rappresento ma anche consegnare ai collezionisti un’esperienza coerente, ma sempre diversa».
Un eventuale ampliamento più a sud, scavalcando il Po, come lo vedrebbe? Quali altre città italiane potrebbero tentarla?
«L’ideale sarebbe una galleria SUL Po. Adoro i fiumi e a Milano non ce ne sono, a parte il Lambro naturalmente».
La sua espansione all’estero finora è stata ristretta all’Europa, con Londra. Da ieri, 21 marzo, ha aperto la nuova sede ad Hong Kong. Lei conosce la città, da anni partecipa ad Art Basel Hong Kong. Sono tempi maturi per presidiare in forma stanziale quel territorio?
«Sono molti anni che lavoro con l’Asia e in particolare con Hong Kong, dove sono anche membro del comitato di Art Basel, e ho avuto modo di vedere da vicino lo sviluppo di una scena culturale vivace e allo stesso tempo la possibilità di esplorare e comprendere le condizioni del mercato. L’apertura della nuova galleria a Hong Kong è un’evoluzione naturale della mia attività e di ciò di cui mi sono occupato per trent’anni, ma soprattutto un segnale di quello che verrà nei prossimi trenta. Non possiamo più permetterci di ragionare a scadenze brevi, l’evoluzione del sistema dell’arte contemporanea ci impone di pianificare a lungo termine».
Milano e Hong Kong sono entrambe centri finanziari. Gli abitanti della seconda vantano pure uno dei redditi pro capite più alti al mondo. Inutile girarci intorno: si scrive “arte contemporanea” e si legge (non solo, ma sicuramente anche) “business”. Secondo lei in che percentuale vale (o dovrebbe valere) ognuno dei due termini?
«La dicotomia tra arte e mercato è un falso storico, una di quelle storie che ripetuta migliaia di volte finisce per diventare verità. Dovremmo avere la maturità intellettuale di non semplificare un mondo complesso come quello dell’arte contemporanea».
Da gallerista di comprovata esperienza, gli artisti italiani come li vede posizionati, in generale, all’estero?
«È un momento di grande visibilità per l’arte contemporanea italiana, basti pensare alle attenzioni che le istituzioni e il mercato internazionale riservano a Fontana, a Burri, a Castellani, per citare solo qualche nome. Non ricordo momenti analoghi nel recente passato, l’Italia è al centro del dibattito internazionale dell’arte e ha un ruolo – soprattutto grazie all’impegno dei privati – che non ha paralleli rispetto a molte altre nazioni nel mondo. I giovani artisti italiani dovrebbero crederci un poco di più».
Fino a che punto il gallerista – e una galleria strategicamente dislocata nel globo – può effettivamente mettere mano sull’ascesa dell’artista? In altre parole, il successo di quest’ultimo può essere in qualche modo “dopato”?
«Le gallerie lavorano allo stesso tempo sulla sopravvivenza e sull’immortalità».
Domanda semiseria: esistono differenze nette tra un collezionista italiano, britannico o cinese?
«La domanda suona come una barzelletta: ci sono tre collezionisti, un italiano, un inglese e un cinese… e si ritrovano tutti alle stesse fiere e agli stessi opening».
«Founded in 1987» si legge ben evidente nella home page del sito www.massimodecarlo.com. Evidentemente ogni anno che passa ha il suo peso. Il prossimo sarà quello del trentennale. Le due nuove aperture sono festeggiamenti in previsione, o c’è dell’altro in vista? Ci può anticipare qualcosa?
«Non mi sono mai piaciute le celebrazioni, ma sto cedendo alla tentazione di festeggiare i trent’anni della galleria perché c’è in effetti un’idea molto speciale e a cui tengo molto, e che ovviamente guarda agli artisti con cui lavoro, di certo non a me».
Andrea Rossetti
In home page: Massimo de Carlo, foto di Giovanna Silva
La mostra attuale da De Carlo è bruttissima (Holstad), proprio formalmente, e la forma è concetto. Altre volte De Carlo c’ha abituato a mostre di valore museale, di valore perché consapevoli di proporre “ikea evoluta”. Siamo ancora ai mercanti di aura. Una grande noia, ma benissimo per arredare le case dei ricchi, ma che barba. Oltre a Cattelan che si è affermato all’estero, artisti come Perrone-Pivi-Bartolini non sono mai riusciti a convincere, anche il loro è un artigianato dell’arte contemporanea. Nonostante il potere di De Carlo questi artisti sono al palo, questa la dice lunga.
non trovo a me è piaciuta