In memoria di Maurizio Calvesi, grande storico e critico d’arte scomparso il 24 luglio 2020, pubblichiamo un ricordo di Lorenzo Canova.
Sono stato allievo, e per lungo tempo collaboratore, di Maurizio Calvesi, mi sono laureato con lui in Storia dell’Arte Moderna con una tesi sulla Sala di Apollo di Castel Sant’Angelo e mi ha seguito anche nella mia tesi di dottorato sulle committenze di Paolo III Farnese, sono stato uno degli assistenti della sua cattedra universitaria fino al suo pensionamento e ho avuto la fortuna di coadiuvarlo in molti importanti progetti espositivi ed editoriali italiani e internazionali.
Degli studi di Calvesi mi sono anche occupato come storico dell’arte e della critica d’arte: per la rivista Arte Documento, nel 2017, ho scritto infatti un lungo saggio sulla sua interpretazione in chiave alchemica di Duchamp.
Sulla rivista Storia dell’arte sta per essere pubblicato un altro mio saggio che, prendendo le mosse dal suo celebre studio A Noir del 1969 (che interpretava l’incisione Melencolia I di Dürer come un’allusione alla nigredo, prima fase del processo alchemico), evidenzia come proprio la linea di ricerca sul rapporto tra arte e alchimia sia stata posta da Calvesi in costante relazione con la sua attività militante di critico d’arte.
Non mi piace scendere negli aneddoti e nelle memorie personali di un rapporto lungo e, per me, così importante, del resto molti altri potrebbero raccontare tanti fatti e particolari del loro sodalizio con un maestro che ha sempre accolto e sostenuto chi stimava e pensava potesse dare un contributo scientifico serio: Calvesi, oltre a essere un grande studioso, era dotato di grande generosità e di straordinaria signorilità, ma era anche un uomo di grande riservatezza, un importante lato del suo carattere che ritengo vada assolutamente rispettato.
Posso testimoniare invece alcune delle moltissime cose che ha insegnato a me e ai suoi molti allievi, che operano nelle università e nelle accademie di belle arti, nell’editoria, nelle soprintendenze e nei musei, donne e uomini che condividono l’impegno scientifico del maestro e che portano avanti molti filoni del suo immenso panorama di interessi.
Calvesi, com’è noto, ha pubblicato studi fondamentali, tradotti in molte lingue, su Piero della Francesca, Beato Angelico, Botticelli, la Cappella Sistina, Dürer, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, i Carracci e Piranesi, su Bomarzo e l’Hypnerotomachia Poliphili, ma anche sul Futurismo, Burri, de Chirico, la Pop Art, l’arte concettuale, il “ritorno alla pittura” e la videoarte, solo per citare alcuni ma non tutti i suoi poliedrici campi di ricerca.
Non a caso sono molti i suoi allievi diretti o di seconda generazione (del resto diceva “gli allievi dei miei allievi sono miei allievi”) ad avere frequentato e animato quel vero e proprio importante centro di ricerca che è stata la casa romana di Calvesi e di sua moglie Augusta Monferini, già grande direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e poi anima portante di Storia dell’Arte, una delle più autorevoli riviste della nostra disciplina a livello internazionale.
La rivista, che era stata praticamente abbandonata dalla precedente casa editrice, venne salvata da Calvesi e Monferini che acquisirono e rilanciarono (spendendo, per puro amore della cultura, fondi personali: è bello ricordarlo) la testata, riprendendone le pubblicazioni a partire dal 2002, come ricorda l’attuale direttore Alessandro Zuccari, uno dei primissimi allievi di Calvesi, in questa intervista.
La redazione era al piano terra della grande casa dei Calvesi e per molti anni ha visto la presenza quotidiana di (soprattutto giovani) studiose e studiosi che, a contatto diretto con Calvesi e Monferini, lavoravano alla rivista, ai progetti di ricerca nati dal prestigioso Premio Balzan vinto da Calvesi nel 2008 o alla riedizione ampliata di Duchamp invisibile pubblicato da Maretti nel 2008, in un fervore ammirevole che ha coinvolto moltissime personalità di sicuro valore e di differenti interessi scientifici.
Seguendo questa visione di condivisione, sarà dunque fondamentale studiare, conservare e tramandare l’opera multiforme di una personalità complessa come quella di Calvesi rispettando la pluralità dei suoi interessi attraverso gruppi ampi e progetti di ricerca articolati, ben coordinati scientificamente e di grande respiro.
A tutte le generazioni di storici dell’arte che hanno avuto la fortuna di ricevere il suo magistero, Calvesi ha insegnato innanzitutto il rigore filologico, l’attenzione primaria per i documenti, per il contesto storico e culturale in cui sono nate le opere d’arte studiate.
Tra l’altro, pur essendo uno dei primissimi studiosi che si sono dedicati all’iconologia in Italia, era molto attento alla lettura formale delle opere d’arte, sia nella sua natura tecnica, che compositiva.
Va ricordato infatti che Calvesi si riconosceva allievo di diversi studiosi: dal suo primo maestro Lionello Venturi, fino a Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Cesare Gnudi e, in particolare, Francesco Arcangeli, con cui ha collaborato nella sua esperienza nella Soprintendenza di Bologna e che lo ha introdotto alla lettura formale delle opere d’arte di origine longhiana.
Ricordo ancora la sua prima lezione che seguii da ragazzo, credo nel 1987, era un corso in cui presentò le ricerche da cui è nato il suo celebre libro Le realtà del Caravaggio del 1990.
Spiegando la sua impeccabile lettura stilistica e formale del maestro lombardo, Calvesi disse che non capiva gli storici dell’arte antica che non guardano all’arte contemporanea e che, ad esempio, un particolare dipinto da Caravaggio nella Cappella Contarelli lo aveva capito meglio grazie a un dipinto di Renato Guttuso, ribaltando in modo geniale i punti di vista e le prospettive di analisi.
Nella visione di Calvesi, l’antico e il contemporaneo erano dunque due punti vivi e dialoganti dell’osservazione dello storico dell’arte che possono essere connessi in modo attivo e dinamico, senza preconcetti e in prospettive innovative.
Del resto nel suo testo Ripetizione e modifica (didattica dell’immortalità) del 1972 Calvesi ha precisato con chiarezza la sua posizione metodologica: «Non credo nel critico ma nello storico dell’arte. Il critico è una figura romantica legata al mito dell’attualità e della parzialità. Egli cerca la maggiore quantità possibile d’informazione in un’unica direzione. Lo storico opera una selezione qualitativa in più direzioni, non sparse ma convergenti; avrebbe la funzione di orientare, proiettare l’attualità nella storia e viceversa, tenere d’occhio la globalità, mostrare il margine di modifica e deformazione nelle ripetizioni della storia».
Proiettare l’attualità nella storia e viceversa, direzioni convergenti, globalità: con un anticipo di quasi cinquant’anni, sembra che Calvesi stia parlando del nostro presente, con quello sguardo anticipatore che è concesso soltanto ai grandi.
Oltre alla sua lunga avventura di storico dell’arte dei secoli passati, Calvesi è stato sempre attivo nel campo del contemporaneo: in mostre, articoli, presentazioni, progetti e saggi.
Ad esempio, collaborando con lui alla cura scientifica della grande mostra “Novecento. Arte e Storia in Italia” (Scuderie del Quirinale e Mercati di Traiano, Roma 2000-2001) o della Collezione Farnesina del Ministero degli Affari Esteri ho potuto constatare di persona come Calvesi affrontasse l’arte contemporanea con uno sguardo aperto, interessato e rigoroso, dando attenzione a tutte le possibili sfaccettature delle sue differenti “situazioni” e alla complessità di tutte le sue forme espressive: dalla pittura astratta e d’immagine, dal concettualismo alla Body Art, alle installazioni, alla videoarte e oltre.
Calvesi apprezzava e registrava il valore delle diverse esperienze senza preconcetti ideologici e al di là di certi steccati che ancora oggi sembrano pesare come gravami inutili di un passato che appare davvero superato dalle attuali dinamiche sociali e culturali.
Questa posizione, realmente aperta alla complessità del contemporaneo, era forse malvista dai soldatini di un certo conformismo imperante, ma è invece uno dei grandi insegnamenti di un uomo che si dichiarava sempre attivo «con l’avidità del nuovo o meglio del non-conforme».
Calvesi ha percorso la storia dell’arte con uno sguardo libero, innovativo e aperto anche all’errore, una posizione che egli stesso contemplava e riconosceva nella sua rigorosa onestà intellettuale, ma che era una condizione necessaria per chi dissodava territori inesplorati e apriva sentieri nuovi.
Ho sentito personalmente Calvesi mutare opinione su cose che aveva scritto e che dovevano essere cambiate, precisate, migliorate: la storia dell’arte come esperienza attiva fatta anche di tentativi, di sperimentazioni per avvicinarsi sempre di più al nucleo denso della verità, una lezione tratta dai testi di John Dewey che, insieme a Eugenio Garin, Michel Foucault e Carl Gustav Jung, rappresenta uno dei suoi importanti riferimenti culturali.
Tuttavia la precisione, la chiarezza di analisi, il nitore e la visione pionieristica delle sue letture e dei suoi studi rimangono come un lascito la cui immensa portata non sarà scalfita dal tempo.
Dobbiamo dunque ringraziare Calvesi per la sua lezione di rinnovamento, di serietà scientifica, di libertà intellettuale, sia pure nel rispetto della filologia e dei dati storici, sperando di essere degni del suo magistero e di poter tramandare alle generazioni future il valore del suo immenso bagaglio di studi e di ricerche.
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