Categorie: Personaggi

Mettere al mondo il teatro interiore

di - 13 Maggio 2016
In linea con il concept di Fotografia Europea XI “La Via Emilia. Strade, viaggi, confini”,di cui è anche sede off, Collezione Maramotti presenta per l’occasione due progetti espositivi dove è il luogo ad essere protagonista. Con la mostra fotografica “So near, so far” di Paolo Simonazzi (Reggio Emilia, 1961) la strada, oltre a suggerire un efficace allestimento orizzontale tutto da percorrere, è  la lente senza filtri attraverso cui l’artista ci restituisce in modo vivido e ironico le trasformazioni nel corso di vent’anni di un territorio sempre più in bilico “tra la Via Emilia e il West”, ostinatamente provinciale e al contempo sedotto dai bagliori del mondo globale che avanza.
“How do I imagine being there?” (“messa in scena” del raffinato libro d’artista che l’accompagna) di Claudia Losi (Piacenza, 1971) riflette sul modo di raccontare luoghi ormai trasfigurati nella memoria dal sovrapporsi di vissuto e immaginato. Ed è ‘cucendo’ insieme pietre, oggetti, disegni, vetri, tessuti, forme animali, vegetali e fossili che l’artista traccia delicate mappe-guida verso i territori inesplorati di un altrove fiabesco e ancestrale, tra la Scozia e le campagne piacentine, in cui perdersi per poi all’improvviso ritrovarsi, lì in un frammento qualunque di quel mondo lontano che in qualche modo sentiamo anche nostro. L’abbiamo incontrata durante l’inaugurazione della sua mostra alla Collezione Maramotti.

Ricollegandoci al concetto di “mente paesaggistica”, di cui hai parlato con Matteo Meschiari (professore associato in Geografia all’università di Palermo) durante la conversazione prima dell’opening, nella percezione di un luogo, è il paesaggio esterno a “plasmare” la nostra visione? O è la nostra mente, il nostro paesaggio interiore, a costruire l’immagine di un luogo?
«Credo che nella percezione di un luogo si instauri un rapporto osmotico e reversibile. Da una parte tutte le informazioni che noi riceviamo dall’ambiente esterno vengono poi rielaborate in base alle nostre memorie, al nostro background, ma noi siamo anche quello che vediamo, ossia le nostre capacità biologiche, i nostri occhi, i nostri sensi e il tipo di trasformazioni concettuali che formiamo vengono determinate dal mondo in cui viviamo. Come homo sapiens per migliaia e migliaia di anni abbiamo esperito l’ambiente da cacciatori-raccoglitori instaurando una relazione con il mondo in cui non eravamo noi a plasmarlo ma ad adattarci, ad essere plasmati dalle caratteristiche dei vari luoghi in cui ci spostavamo per nutrirci. Ciò non può che aver determinato fisicamente la nostra modalità di percepire il mondo, innestando nella nostra mente come dei celacanti fossili, forme viventi rimaste ancorate a strutture arcaiche che, come chi studia il nostro cervello può confermare, fanno sì che la nostra modalità di ricevere le informazioni non sia di fatto biologicamente mutata rispetto ai nostri predecessori cacciatori-raccoglitori, nonostante le profonde trasformazioni dell’ambiente e del nostro modo di rielaborarlo concettualmente».

Cosa determina lo scarto fra esperienza reale e memoria di un luogo, tra la relazione fisica e la sua interiorizzazione? E in che senso le tue opere possono essere considerate tracce ibride tra reale e immaginario del divenire mentale di un luogo?
«Mi rendo conto che si tratta di argomenti enormi e complessi verso i quali mi sento sempre molto ignorante e inadeguata. Ma il vantaggio dell’arte è proprio quello di poter attingere spavaldamente dagli altri campi, quasi vampirizzandoli. Le opere esposte in mostra sono frutto di un lavoro protratto negli anni e fatto di un continuo lasciarle lì, per poi riprenderle in quei particolari momenti di grazia quando ormai la mia esperienza, il mio corpo, il mio umore sono cambiati, determinando così lo scarto, la mutazione di colore rispetto al pregresso rapporto fisico con il luogo, a quell’esserci stato che resta comunque la chiave per noi imprescindibile in quanto strumenti viventi. Il mio obiettivo era ripescare nella memoria, un po’ come cartoline riposte nel cassetto, parole, immagini, oggetti immagazzinati nel tempo per dare loro dimora nel mio teatro interiore che qui si rimette al mondo, creando una sorta di cartografia personale ibrida tra vissuto e immaginato».                                    
Tu affermi: “Ogni organismo vivente percepisce del mondo solo ciò che gli serve per agire”, quindi la percezione del mondo è sempre in un certo senso soggettiva e parziale. Allora l’immagine che abbiamo di un luogo dice più di noi o del luogo?
«Il luogo esiste a prescindere da noi e siamo poi noi che decidiamo di raccontarlo. Il nostro racconto non corrisponde al luogo reale, ma è solo una delle immagini possibili che dice più di noi, della nostra esperienza soggettiva che del luogo stesso. In un certo senso si può dire che avremo tante immagini del luogo quante sono le visioni anche di un singolo individuo. E la comunicazione e la comprensione dell’altro si basa proprio su una sorta di compromesso tra visioni, tra le diverse immagini di mondo. Anche il mio lavoro artistico è una visione assolutamente parziale e la soddisfazione maggiore è quando l’altro si riconosce in qualcosa che apparentemente non gli appartiene ed è in grado di suggerirgli punti di vista inediti. E ciò riassume un po’ il senso e il privilegio del fare arte».

Ma se la nostra visione del mondo è il prodotto di esperienze percettive precedenti reali e immaginarie, individuali e collettive, è possibile cogliere un’analogia tra la mente e il luogo, a sua volta risultato di stratificazioni di condizioni geologiche passate? E come l’opera d’arte può raccontarle quasi come un fossile ibrido di entrambi?
«Noi siamo quello che abbiamo vissuto, una stratificazione di esperienze e racconti che come una spugna ci hanno imbibito nel tempo. L’idea stessa di stratificazione è per me da sempre un’ossessione, forse perché ricorda la struttura dei luoghi della mia infanzia in cui l’arenaria era ricorrente con le sue striature di sabbia depositate sui fondali marini e che ora sono campi di mais o vigneti. Una conformazione che ho interiorizzato durante la mia infanzia nelle campagne piacentine come una sorta di mio primo mondo, di primo luogo con cui sono venuta a contatto e che ha plasmato la mia modalità di percepire. Anche nei miei lavori ritorna la testimonianza di questa stratificazione geologica, come negli oggetti posizionati sul tavolo cartografico presente in mostra. Si tratta di calchi in bronzo di conchiglie fossili trovate qualche anno fa in un calanco di sabbia e a cui ho dato una durezza ben diversa dalla loro originaria fragilità e che insieme ai ricordi, anch’essi così precari,  tramite l’opera d’arte si compattano in una forma che resiste».

Quale luogo reale ha trasformato più il tuo sguardo e quale luogo si è più trasformato nella tua pratica artistica di riscrittura per costruire mappe di mondi ancora da esplorare?
«Sicuramente, come dicevo, il mio primo mondo, le campagne piacentine della mia infanzia hanno condizionato il mio sguardo. Ma anche le isole della Scozia, le Ebridi e le Orcadi con le loro distese polarizzate così diverse rispetto ai luoghi tipicamente mediterranei a cui siamo abituati, hanno poi contribuito a trasformarlo. In particolare l’isola di S.ta Kilda, per me vero e proprio motore immaginifico, che ho provato a raggiunge per la prima volta nel 2006 con degli amici dovendomi fermare a causa delle difficili condizioni meteorologiche. Da questa esperienza ‘fallimentare’ è nato un video, realizzato con il videomaker Daniele Signaroldi e intitolato “Essere  altrove”, in cui i protagonisti, quattro ragazzini del posto, si trovano a contatto con i luoghi appenninici. Proprio osservandoli ho potuto riflettere sui meccanismi coinvolti nella relazione con un luogo, dall’immagine costruita prima di andarvi, all’esperienza reale fino al ricordo che la trasfigura. Così è avvenuto per S.ta Kilda che ha sempre rappresentato il “Lontano” nel mio lavoro, dove poi la S.ta Kilda immaginata, vissuta e ricordata si sono poi sovrapposte originando un luogo che non esiste, ma che al contempo potrebbe trovarsi ovunque».
Martina Piumatti

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