Presentata ieri l’edizione miart 2019, a Palazzo Marino. Per il terzo anno Alessandro Rabottini è ufficialmente al timone della fiera di Milano. Lo abbiamo intervistato non insistendo solamente sul suo ruolo istituzionale, ma anche sulla sua idea di arte. E di città.
Milano negli ultimi anni, dal punto di vista del collezionismo e della diffusione di nuovi spazi espositivi e gallerie, ha avuto un forte incremento. Ma quante di queste realtà pesano davvero per uno sviluppo “artistico” della città?
«Milano può contare sulla presenza di grandi gallerie – come Massimo De Carlo, Kaufmann Repetto, Giò Marconi, Raffaella Cortese, Lia Rumma, per citarne davvero solo alcune – che negli anni si sono costruite una reputazione molto forte a livello internazionale – grazie ai loro programmi e alla partecipazione alle fiere più prestigiose – e che attirano in città collezionisti da tutto il mondo. Inoltre Milano, in periodi come il Salone del Mobile, la Settimana della Moda e ora anche con l’Art Week, ha la capacità di attrarre un pubblico internazionale, così come accade periodicamente in corrispondenza degli opening delle grandi istituzioni e fondazioni private, da Fondazione Trussardi, a Fondazione Prada, da Palazzo Reale a Pirelli Hangar Bicocca. Il fatto che continuino ad aprire in città gallerie, sia di arte moderna che contemporanea, è simbolo dell’esistenza di un contesto appetibile. Poche settimane fa Massimo De Carlo ha aperto un nuovo spazio in un edificio iconico per Milano come Casa Corbellini-Wassermann, in anni recenti hanno aperto gallerie come Vistamare Studio, Francesco Pantaleone, Federica Schiavo e Tommaso Calabro. A queste si sono affiancate importanti aperture di spazi privati come FM Centro per l’Arte Contemporanea o il più recente ICA Milano, senza parlare dei tanti spazi no profit che in città hanno trovato un terreno fertile in cui crescere. Tutto ciò contribuisce a rendere Milano un polo culturale imperdibile nel panorama internazionale dell’arte contemporanea».
Quanto l’identità della fiera è legata allo sviluppo di Milano dal punto di vista sociale ed economico?
«Gli anni che hanno visto la crescita di miart coincidono con gli anni in cui Milano ha subito una profonda trasformazione dal punto di vista urbanistico, economico, culturale e sociale. Proprio quest’anno Wallpaper ha premiato Milano come migliore città al mondo in quanto a design, arte, architettura e moda, e ha citato miart, insieme a Fondazione Prada, Salone del Mobile e Triennale, tra gli highlights dal punto di vista culturale. Questo cambiamento nella percezione credo sia anche il frutto di un lavoro di grande collaborazione tra Fiera Milano e il Comune, che da anni lavorano insieme per proporre un programma della Milano Art Week che possa rendere la città una destinazione culturalmente appetibile a livello internazionale. E l’edizione della Milano Art Week 2019 confermerà ancora una volta questo profondo gioco di squadra tra i principali attori attivi in città. Non dimentichiamo, inoltre, che il clima di integrazione e di scambio internazionale che si respira in città è il contesto nel quale vive la fiera, che si propone di essere un hub di incontro tra realtà anche geograficamente distanti tra loro e che portano, in un’unica vetrina, la loro offerta culturale».
Che spinta ha preso la fiera negli ultimi anni? Quali sono state le strategie vincenti?
«Dal 2013 ad oggi la fiera è cresciuta moltissimo, ma è stata una crescita organica, senza prendere il distacco da quella che è la sua storia. Questo anche grazie a Fiera Milano che ha sviluppato un progetto per miart con una sua solida continuità. Miart è una fiera che negli ultimi sei-sette anni non ha subito grandi fratture, né dal punto di vista della strategia aziendale né sotto il profilo della direzione artistica. Sebbene io sia Direttore da tre anni, ho collaborato fin dal 2013 al fianco di Vincenzo de Bellis, e non ho ritenuto necessario intervenire su un’architettura che già sentivo appartenermi perché avevo contribuito a svilupparla, ovvero quelle di una “fiera boutique” capace di dare voce ai molteplici linguaggi dell’arte. Negli anni ci siamo concentrati nell’offrire al pubblico ed ai collezionisti una proposta di altissima qualità ma con caratteristiche precise: una vasta ampiezza cronologica, la coesistenza di linguaggi tra loro differenti, uno sguardo sempre più focalizzato sul panorama internazionale e un dialogo sempre più profondo con le gallerie, le istituzioni e la città di Milano».
È vero, secondo te, che per riuscire a portare all’estero l’arte italiana bisogna che questa parli di una identità italiana, senza prendere in prestito modalità più commerciali che funzionano in altri luoghi ma che ne appiattiscono il livello?
«L’arte è un linguaggio profondamente individuale, all’interno del quale possono coesistere tanto elementi riconducibili alla propria cultura di appartenenza tanto elementi che si sottraggono a qualsiasi forma di appartenenza. La vera arte si afferma quando esprime qualità, indipendentemente da dove essa derivi. Nell’arte di Alberto Burri, per fare un esempio, ci sono sicuramente rimandi alle sue radici umbre, al paesaggio e alla storia dell’arte di quella parte di Italia, ma questo non è certo il motivo per cui la sua arte riesce a toccare le corde emozionali ed intellettuali a livello globale».
Com’è visto l’artista italiano all’estero, fuori dal suo contesto nazionale?
«Artisti delle più recenti generazioni come Alberto Cuoghi, Lara Favaretto, Pietro Roccasalva, Marinella Senatore, Giorgio Andreotta Calò, solo per citarne alcuni, hanno una carriera internazionale che ribadisce l’importanza di un lavoro di qualità sopra a qualsiasi altro discorso di appartenenza nazionale. Non credo che, quando pensano al proprio lavoro, si pongano in un’ottica di questo tipo e credo che altrettanto dovremmo fare tutti noi. È il lavoro che in fin dei conti parla, tutto il resto è di competenza della cronaca».
Quanto è importante il nostro passato e quanto influisce, ancora, sullo sviluppo contemporaneo?
«Il passato, il presente e il futuro dell’arte sono dimensioni della creatività in continua e reciproca relazione. Miart è ad oggi la fiera italiana che vanta la più ampia offerta cronologica, spaziando dai primi anni del ‘900 fino alla creatività emergente e al design di ricerca. L’importanza del dialogo tra passato e presente è particolarmente espressa all’interno delle due sezioni curate della fiera: Generations, che pone in dialogo in otto stand artisti di generazioni diverse tra loro, e Decades, in cui nove gallerie daranno vita a un percorso che attraverserà il Ventesimo secolo con una scansione per decenni. Non possiamo guardare al futuro senza avere coscienza del nostro passato, ma non possiamo rendere produttiva la conoscenza del passato se non ne comprendiamo il valore all’interno del nostro presente, che è l’unica dimensione temporale in cui ci è dato vivere ed agire».
Quali sono le novità della fiera d’arte milanese per l’edizione 2019? Su cosa si è puntato maggiormente?
«La volontà di miart per il 2019 è quella di puntare sulla continuità del progetto intrapreso gli anni precedenti, con l’obiettivo di lavorare ad un approfondimento verticale sulla qualità degli espositori piuttosto che su un’espansione orizzontale del loro numero. E questo dipende anche dalla nostra convinzione che la fiera debba agire responsabilmente sia verso gli espositori sia verso il pubblico. L’ampliamento della scelta cronologica e di offerta di opere è, inoltre, una scelta che, portata avanti negli anni, ha ampliato sempre di più le tipologie di pubblico alle quali riusciamo a parlare. Inoltre, sono felice di aver confermato, per il quarto anno consecutivo, la collaborazione con In Between Art Film in occasione dei miart talks che, anche nel 2019, accoglieranno circa 40 esperti del settore attorno al tema de “Il Bene Comune”, riflettendo su come arte moderna, arte contemporanea e design possano contribuire a creare e nutrire la percezione di un bene collettivo».
Siamo al tuo terzo anno alla direzione di miart. Quale pensi sia stato il contributo di maggiore rilievo che hai dato in questo periodo?
«Sono una persona a cui interessano tante cose e tanti argomenti differenti, e sono felice che miart possa accogliere al proprio interno una molteplicità di linguaggi espressivi eterogeni, amplificando in questo modo una caratteristica peculiare di una città come Milano, che storicamente ha sempre messo in comunicazione arte, design, architettura, editoria, moda etc. Sono onorato di aver dato un contributo alla crescita di miart anche attraverso la costituzione di tanti premi, che grazie alla collaborazione dei nostri partner Herno, Fidenza Village, Snaporazverein, LCA e Rotary Club Milano Brera, ci permettono di riconoscere lo sforzo delle gallerie e degli artisti nel presentare progetti di qualità, oltre che di aver ampliato la portata dei miart talk e di aver interagito così a fondo con il Comune e con le istituzioni. Miart è un evento commerciale ma si è trasformato in un evento che contestualizza il commercio all’interno di un discorso profondamente culturale, e credo che queste due dimensioni siano profondamente connesse fra loro».
Gaia Tonani