Morto all’età di 96 anni l’architetto Yona Friedman. La famiglia ne ha dato notizia attraverso il suo account su Instagram e promette che la Fondazione continuerà il suo lavoro.
Pochi minuti fa ci ha raggiunto una mail del gallerista Massimo Minini che ricorda il suo amico Friedman.
“Yona non c’è più…semplicemente ci ha lasciati con la stessa grazia con cui ci aveva accolti anni fa, in vista della sua prima apparizione in galleria. Un anno fa abbiamo iniziato a ragionare su due mostre (Galleria Massimo Minini a Brescia e Francesca Minini a Milano) e su un libro.
Yona si è impegnato al massimo, nonostante i 96 anni, l’età, i malanni conseguenti.
Lui aveva l’entusiasmo di un bambino (di 96 anni) e quando parlava e sorrideva lo faceva non solo con gli occhi, ma con tutta la persona.
Abbiamo progettato con lui, aiutati dalla figlia Marianne e Jean-Baptiste Decavèle, suo storico collaboratore, le due mostre e il libro (Untitled) pubblicato in collaborazione con Walther König.
L’aspetto incredibile della vicenda è che Yona, architetto dalla sterminata bibliografia, non aveva ancora un libro che parlasse del suo lavoro come artista.
Ha proposto a noi di farlo e lo abbiamo coeditato con Walter König. Un volume di oltre 300 pagine con testi di Hans Ulrich Obrist, Hou Hanru, Jean-Baptiste Decavèle e un saggio di Maurizio Bortolotti, regista dell’operazione.
Le due mostre di Brescia e Milano sono la summa del suo lavoro recente, una mostra da museo, sono il regalo ultimo che Yona ci ha fatto.
Salutiamo Yona con grande affetto, quello che lui ha saputo attirarsi con la semplicità degli assunti, con l’immediatezza del messaggio, con il suo fascino da bambino che si stupisce ancora di tutto, di fronte a fenomeni giustificabili solo con la poesia.
Lui forse era un Elohim disceso in terra per capire meglio noi umani”.
Nativo ungherese (Budapest, 5 giugno 1923) Friedman era sfuggito alle persecuzioni razziali del Nazismo fuggendo dapprima in Israele, dove aveva vissuto per dieci anni, e poi trasferendosi a Parigi, dove era arrivato nel 1957. Una condizione, quella della migrazione, che in seguito influenzerà moltissimo il suo lavoro di “architetto utopico”.
“L’architettura ha un significato più profondo del semplice costruire. Penso a me stesso come membro di una specie, dotato di una capacità genetica. Tutto è connesso e se viene modificata una piccola parte di DNA, se ne vedranno gli effetti ovunque” spiegava Friedman, che a partire dagli anni ’60 era stato un fervente partecipante dell’idea utopica di architettura e di autoregolamentazione degli abitanti.
Docente in moltissime università degli Stati Uniti, autore di innumerevoli saggi anche rispetto al tema della stessa autocostruzione architettonica pensata per i Paesi dell’Africa, dell’America Latina o del Subcontinente indiano, Friedman era convinto che ogni progetto dovesse essere realizzabile, ma soprattutto che avesse un impatto reale sulla vita delle persone comuni.
Tra le ultime commissioni pubbliche realizzate c’è stato, nel 2016, il progetto del Padiglione estivo della Serpentine di Londra, che l’architetto aveva realizzato riprendendo il modello della sua Ville Spatiale, concetto architettonico – ideato nel 1958 – che prevede è una struttura sollevata su palafitte che possa sovrastare zone in cui la costruzione non è possibile o, addirittura, innestarsi su città esistenti.
Per il Padiglione della Serpentine Friedman concepì un array di cubi, ognuno formato da sei cerchi del diametro di quasi due metri, assemblabili in differenti configurazioni. Friedman definì il suo intervento un “museo mobile”.
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