Regina José Galindo è a Roma, in questi giorni, per eseguire un’azione all’Accademia di Spagna il 10 dicembre, cui seguirà una mostra fotografica in apertura il 14. Lavarse las manos è il suo titolo, e se esiste un’artista che non se ne è mai lavata le mani quella è la Galindo. È dal 1999 – anno in cui la sua ricerca passò dal reame della poesia a quello della performance, anche se la soluzione di continuità è in realtà solo apparente – che l’artista guatemalteca ha eletto come temi preferiti delle sue azioni, e forse come unici eticamente praticabili, i diritti delle donne e la denuncia delle situazioni localmente e globalmente più critiche ad essi inerenti. Le abbiamo fatto qualche domanda, e lei ci ha dato qualche risposta, con il suo solito fervore battagliero ma gentile.
La tua performance all’Accademia di Spagna di Roma prende spunto dalla questione delle donne rifugiate. Secondo te esiste il pericolo che la nostra coscienza si addormenti? O è già accaduto?
«L’essere umano è sempre stato perverso, non è una situazione attuale. Ogni generazione ha avuto la sua tragedia. La storia e le guerre sono cicliche. La nostra responsabilità è quella di essere una terapia d’urto negli anni in cui ci è toccato nascere e vivere. Cercare di farlo bene. Cercare di vivere consapevolmente senza fare del male ed essere responsabili nei confronti dello spazio che occupiamo. In quanto artista ho una responsabilità. Io parlo e la gente mi ascolta. Non posso permettermi di parlare con incoscienza. Il pericolo non è che la nostra coscienza si addormenti, il pericolo è che non ci sia nessuno né nulla a risvegliarci».
Sono passati 20 anni dalla tua prima performance. Pensi ci siano stati cambiamenti riguardo la difesa dei diritti umani delle donne? Stiamo andando avanti o indietro?
«Un cambiamento radicale. È stupefacente ciò che fanno le nuove generazioni di donne. La loro lotta è una dimostrazione di rabbia e astio, ma è anche una dimostrazione di forza e resilienza. Sono impareggiabili. Non ci chiedono il permesso di pensare, di fare, di essere. Queste donne stanno facendo letteralmente vacillare la terra e i suoi sistemi. I maschi le temono. I conservatori si sentono come non mai irritati dalla loro voglia di vivere e dalla loro allegria. Stanno riuscendo a farci andare tutti avanti».
Le tue performance parlano della violenza umana, della negazione dei diritti, della sopraffazione dell’uomo su un altro uomo: se li considerassimo come aspetti di una malattia dell’umanità, è una malattia che secondo te potrebbe essere curata o si dovrebbe imparare a conviverci?
«Non è una malattia. Il lato oscuro dell’umanità è una parte di essa, nasciamo tutti con questa parte. L’umanità deve imparare a convivere con entrambi i lati. Non negare l’oscurità bensì renderla un campo di luce, un campo illuminato. Deve imparare a tenere il male sotto controllo, far sì che sulla bilancia pesi meno. Questa è una delle lezioni fondamentali per l’umanità».
Il corpo conserva la memoria delle azioni che compie e che subisce. Ti è mai capitato che una tua azione avesse effetti, echi nella tua vita quotidiana?
«Sì, per certi versi alcune opere sono rimaste dentro di me, in un modo o nell’altro. Quando ho realizzato Presencia nel 2017, mi sono sentita profondamente toccata dalla vita e dalle storie delle donne assassinate in Guatemala che mi hanno prestato i loro vestiti (l’hanno fatto le loro famiglie, chiaramente). Questo mi ha intensamente suggestionato. Era facile indossare i loro vestiti ma era sempre molto difficile sfilarmeli. Dopo la performance mi sembrava di sentire la loro presenza, a volte immaginavo che mi fossero con me. Ho faticato molti mesi perché questa suggestione abbandonasse la mia testa».
Che importanza ha il mezzo fotografico per la documentazione delle tue azioni? È un aspetto che curi personalmente?
«È molto importante. È la prova del mio lavoro. È la possibilità di raccontare una storia, di essere parte della storia. Sì, ha contribuito alla scelta del materiale che è la documentazione finale, chiaramente. Non faccio l’editing personalmente. Mi affido a professionisti».
Come ti prepari prima di una performance? Hai un tuo metodo sempre uguale?
«Ogni opera ha la sua storia, la sua forma, e di conseguenza ognuna ha le sue direttrici. Quando ho realizzato l’opera per la Documenta, in cui correvo davanti a un carro armato, La Sombra, per esempio, mi sono preparata per un anno con un allenatore per poter correre per un lungo periodo di tempo. Quando ho fatto Presencia ho lavorato con una Ajq ij maya (n.d.r. sacerdotessa) per chiedere il permesso di usare i vestiti. Abbiamo fatto diverse cerimonie per ripulire l’energia dai vestiti di queste donne che erano morte in modo violento. Anche quando ho realizzato Mazorca ho lavorato con un sacerdote maya per chiedere il permesso alla terra di tagliare il mais».
Se dovessi identificare tre maestri importanti per te, quali sarebbero?
«Alejandra Pizarnik, Ana Mendieta, Aníbal López, Teresa Margolles».
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