Categorie: Personaggi

NOZZE D’ORO SULL’ATTICO

di - 21 Novembre 2007
Era il 25 novembre del 1957, la prima mostra della galleria inaugurava nella sede di piazza di Spagna. Gli artisti chiamati a esporre erano Vasco Bendini, Giuseppe De Gregorio, Leoncillo, Filippo Marignoli, Ennio Morlotti, Enzo Petrillo, Piero Raspi. Nel mese di novembre di quest’anno, a cinquant’anni da quel vernissage, L’Attico di via del Paradiso, sui tetti di Campo de’ Fiori, festeggia l’anniversario con una mostra di manifesti. Non si tratta di manifesti qualsiasi, ovviamente, ma di quelli che hanno annunciato e accompagnato l’attività della galleria nel corso del tempo, dagli anni ‘50 a oggi, mezzo secolo di storia restituito attraverso nomi, date, immagini. Gli inizi avvennero in piazza di Spagna: fino al 1966 L’Attico fu “gestito” da padre e figlio insieme, dal 66’ al 68’ soltanto da Fabio. Poi ci fu il periodo del Garage di via Beccaria, dal 1968 al 1976, e poi la sede attuale di via del Paradiso. Una vita costellata da incontri con artisti, gesti diventati epocali col tempo, arrivi e partenze che Fabio Sargentini ci racconta con l’entusiasmo e la vis oratoria che lo contraddistinguono da sempre.

Iniziamo dagli anni Sessanta. Come è andata la separazione fra te e tuo padre?
La rottura è avvenuta nel 1966 a causa della mostra di Pino Pascali, su cui lui non era d’accordo. Io volevo lavorare con gli artisti miei coetanei: cominciai con l’esporre gli animali bianchi e il mare bianco di Pascali. Il mare costringeva i visitatori ad andare lungo i muri, tutt’intorno al mare c’era spazio solo per una persona. Io mi resi conto che questo tipo di installazione totale, che prendeva tutto lo spazio espositivo, rompeva la contemplazione del quadro, dello spettatore supino di fronte al quadro. L’opera d’arte invadeva lo spazio al punto tale che ti costringeva ad andare rasomuro per vederla. In quel momento mi fu chiaro che la sede di piazza di Spagna era obsoleta, non era più il contenitore adatto per l’arte nuova.

Però per alcuni anni restasti lì…
Quando io e mio padre Bruno ci siamo separati, sono rimasto per due anni ancora nel vecchio spazio a piazza di Spagna.

E poi?
E poi avevo bisogno di un altro spazio. Lo presi alla fine del 1968, dopo la morte di Pascali. Ma indubbiamente è stato lui che mi ha aperto la testa su quella situazione.

Pino Pascali è morto giovane, all’età di trentatré anni, senza avere il tempo di essere riconosciuto come artista, se non proprio nell’anno della sua morte. Lo si può considerare assolutamente un artista de L’Attico. Come nacque il sodalizio con lui?
Le armi, i cannoni di Pascali io li avevo visti in mostra a Torino alla galleria Sperone, perché a Roma erano stati rifiutati da Plinio De Martiis della galleria La Tartaruga. Io passai per Torino, vidi la mostra, tornai a Roma e cercai immediatamente Pascali. Era settembre 1966.

Riuscisti a rintracciarlo?
S^ e gli dissi: “Ma i cannoni te li ha comprati Sperone? No? Allora te li compro io”. Lui telefonò a Gian Enzo, io mandai il camioncino e portai via tutte le armi. L’incontro con Pascali fu decisivo per me.

In quegli anni ci furono altre figure chiave?
Sì, vi fu Simone Forti, giovane coreografa americana di origini italiane, che era stata moglie di Bob Whitman e di Robert Morris.

Tu come l’hai conosciuta?
Lei capitò a Roma tre giorni dopo il funerale di Pascali. Era un’ebrea fiorentina che all’età di cinque anni era fuggita con la famiglia in America per le leggi razziali. Ora, trentenne, era tornata a visitare l’Italia.

E così si è aperto il mondo della danza contemporanea…

Sì, si vide a Roma la prima danza performance, danze costruzioni come le chiamava lei. In quel momento ho capito che si poteva -anzi si doveva- dissacrare il luogo galleria d’arte, introducendovi un dinamismo, una libertà di pensiero e di movimento che mi portò al garage, inteso come spazio espositivo cui tendevo già attraverso il mare di Pascali. Il passaggio nella nuova dimensione era maturo, ma trovai lo spazio giusto solo dopo la morte di Pascali.

Come andò la scelta degli altri artisti da esporre nel garage, dopo Pascali?

Le mie due punte di diamante erano Pascali e Kounellis. Perso Pascali, ho offerto la verginità dello spazio a Kounellis. Che c’ha messo i cavalli.

Kounellis e Pascali. Come li scegliesti?
A Roma la situazione delle gallerie era questa: gli artisti miei coetanei li trovavi da Gian Tomaso Liverani alla Salita o da Plinio de Martiis alla galleria La Tartaruga. Quando io sono intervenuto sulla scena -potentemente- ho scelto prima Pascali e poi, intravisto un lavoro di Kounellis in una galleria secondaria, ho preso pure lui. C’era da scegliere tra dieci, dodici promettenti artisti romani, tra cui Mambor, Tacchi, Schifano, Festa, Ceroli, Lombardo… Io estrassi Pascali e Kounellis da quel mazzo. Ho sempre avuto fiuto in questo. Nella mia carriera ho tenuto a battesimo altri artisti destinati ad affermarsi: De Dominicis, Ontani, Pizzi Cannella, Nunzio…

Nel 1979 la galleria chiude, ma risaliamo al ’76 quando, per il cambio di sede, il garage venne completamente allagato…
Mi sono sempre sentito un artista, però per molto tempo, per me, c’è stato un problema di espressione diretta, dovevo mediare questa mia creatività pulsante attraverso lo spazio che gestivo, non potevo concedermi un gesto assoluto di artista puro. Dal mare di Pascali avevo capito che l’acqua incapsulata in un contenitore, ferma, si trasformava in un’altra materia, cristallo, ghiaccio, plastica… In questo modo ho formalizzato il gesto. Mi dettero sei milioni di buona uscita: tre milioni me li sono giocati rivestendo di gomma il pavimento, perché altrimenti l’acqua se ne sarebbe andata subito! Poi ho aperto il rubinetto del mio ufficio. Andavo di notte a vedere quanto saliva l’acqua, finché salì di mezzo metro, circa cinquantamila litri. Dall’alto, con uno sguardo solo, era bello abbracciare questa cosa così cristallizzata. Vittorio Rubiu sul Corriere della Sera dedicò un articolo all’evento, Acqua alta all’Attico, e lo descrisse come un pezzo di laguna insinuata dentro la galleria.

Come venne recepito questo gesto?
L’allagamento fu recepito molto bene dagli americani, meno, e si può capire, dagli artisti italiani. Ho dovuto sospendere la galleria.

“Dovuto”? Perché?
Per fare l’artista in prima persona, perché mi dovevo liberare di questo doppio ruolo, quello di gallerista talent scout di artisti, e quello di artista. Nel 1979 mi sono dato al teatro sperimentale e ho chiuso la galleria.

Una vita vissuta sul filo. Ricevevi critiche per questo modo di essere?
Per questo mio sentirmi artista mi hanno sempre accusato di plagiare gli artisti, di dar loro l’imbeccata. Ma se io avessi plagiato gli artisti, loro dovrebbero essere tutti uguali, e invece sono tutti diversi! Quello che ho sempre dato è la mia carica, la mia energia nel credere nell’artista e nel farlo credere in se stesso. La mia proiezione è servita a dar loro la giusta carica, farli decollare a livelli straordinari. Però il lavoro è sempre stato solo roba loro.

Al momento di riaprire la galleria come è cambiato il rapporto con gli artisti giovani?
Ho fatto il mio percorso, ho raggiunto i miei successi personali come artista, e quando ho ripreso la galleria, dopo il teatro, il mio rapporto con i giovani artisti è cambiato. Non avevo più alcun bisogno di proiettarmi su di loro, essendo convinto delle mie doti artistiche.

E oggi?
Adesso vivo bene. Scrivo, mi cimento nel teatro, mi invento mostre a tema. Provo ancora gusto a consigliare un giovane sconosciuto che a mio parere ha stoffa: l’apertura verso i giovani artisti vive tuttora. Ultime scommesse: Capitano come scultore e Montani come pittore.

articoli correlati
Beuys, Sargentini e Pio Monti
La scheda della galleria

a cura di valentina bernabei

*foto in alto: l’allagamento dell’Attico di via Beccaria – 9-11 giugno 1976


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 44. Te l’eri perso? Abbonati!

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