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Giacomo Manzoni, (cognome che nel dialetto bergamasco diventa Manzù) nasce a Bergamo nel 1908. All’età di 11 anni inizia a lavorare presso la bottega artigiana di un intagliatore di legno, successivamente apprende le tecniche della doratura e della stuccatura. Immediatamente si rivelano le sue doti eccezionali nel plasmare la materia. L’esordio di Manzù scultore è quindi legato al mestiere, quel mestiere che si misura con la materia per vincerla, per sottometterla alla vita di cui l’opera stessa si impregna. Per questo egli mille volte crea e poi distrugge, alla continua ricerca di qualcosa che sembra sfuggirgli continuamente.
Negli anni matura e arricchisce la tecnica e il repertorio tematico. Amanti, sedie, ceste di frutta, animali, bambini, cardinali, soggetti sacri e profani tutti accomunati da un’unica inclinazione, tutti rivelatori di un profondo e personale credo.
In ogni opera è l’uomo che conduce per mano l’artista e, attraverso le sue esperienze e le sue attitudini, lo porta a scoprire le verità che oggi appaiono di fronte ai nostri occhi.
L’uomo-artista cerca l’uomo. Le sue creazioni parlano di persone comuni, descrivono eventi quotidiani.
Anche nelle rappresentazioni più importanti, i grandi protagonisti della storia della Chiesa, vestono i nostri panni. Noi ci riconosciamo in loro e viviamo, osservando gli episodi raffigurati, il dramma dell’esistenza. Tutto è ridotto ai minimi termini: questa è la forza dei messaggi dello scultore di Bergamo. La realtà irrompe violentemente e coinvolge in modo del tutto inaspettato.
Nei suoi bronzi non c’è retorica, il significato è comprensibile a chiunque si accosti con un minimo di sensibilità: laici e credenti possono comprendere le opere di Manzù. Il suo, infatti, è un discorso rivolto a tutti. Egli stesso si professa non credente eppure le immagini che crea grondano di spiritualità e di questo se ne sono resi conto anche i più scettici esponenti del clero, che, nonostante abbiano tentato di ostacolarlo, alla fine lo hanno scelto per la realizzazione di una delle porte di San Pietro.
Manzù ottiene questa importante commissione, e, quello che più conta può realizzarla seguendo il proprio sentire. Dalle sue mani e dalla sua anima nasce la Porta della Morte, dedicata a Don Giuseppe De Luca, suo amico e consigliere, e commemorativa di Giovanni XXIII, il Papa buono.
La Porta della Morte
Nella versione finale, cui l’artista approda dopo anni e anni di studi, bozzetti, ripensamenti e desiderio di abbandonare il progetto, Manzù elabora una spazialità nuova che rivoluziona l’impianto tradizionale delle porte bronzee.
Le immagini si legano tra loro attraverso le pause, gli spazi vuoti e il fitto intreccio di rapporti formali e tematici: i due pannelli maggiori e gli otto minori possono essere divisi in due gruppi di cinque esempi di morte violenta e altrettanti cinque di morte non violenta.
Tra i primi: la morte di Cristo, di Abele, di Stefano, la morte nello spazio e la morte per violenza; la morte non violenta è quella di Maria, di Giuseppe, di papa Giovanni, di Gregorio VII e infine, la morte sulla terra.
Nei due pannelli maggiori sono rappresentati quattro testimoni (i due angeli nella morte di Maria e la donna che piange e il servo che depone Cristo nel secondo riquadro maggiore), e ne troviamo ancora quattro negli otto minori, in particolare i quattro pannelli esterni hanno una figura testimone ciascuno. In quelli interni le figure che sono morte pacificamente recano con sé gli oggetti che le accompagnarono in vita (Giuseppe il bastone e papa Giovanni i paludamenti), mentre le restanti due, morte violentemente, hanno con sè gli strumenti del martirio (Stefano i sassi che gli piombano addosso e l’astronauta un groviglio che sembra un paracadute squarciato).
Un ulteriore rapporto tra gli episodi dei pannelli maggiori e i primi quattro minori, è dato dalla fase delle singole morti, tre i momenti: la morte imminente, la morte nell’attimo in cui giunge, la morte avvenuta.Esempi di morte imminente sono il pannello di Abele, che tenta un’ultima difesa, e quello di Stefano che caduto in ginocchio non è ancora sepolto dai sassi.
Il punto di morte è in Giuseppe e in Gregorio VII che chinano il capo. La morte ormai avvenuta è quella di Maria e di Cristo, dopo l’agonia la serenità.
Abele è il primo morto (ucciso) del Vecchio Testamento, Giuseppe l’ultimo (in pace), Stefano è il primo del Nuovo Testamento (ucciso), Gregorio VII, scelto come ultima morte in pace.
Un ultimo rapporto è dato dalla diagonale che congiunge Maria con la madre di famiglia, e Gesù con l’uomo appeso per i piedi.
Daniela Bruni
[exibart]