La recente apertura di Musia, il nuovo spazio nel cuore di Roma di circa 1.000 metri quadrati per l’arte contemporanea, mi ha fornito il pretesto per un’intervista a tutto tondo con il suo ideatore: il collezionista e imprenditore Ovidio Jacorossi. Lo incontro nel suo quartier generale in via dei Redentoristi, di fronte a Sant’Andrea della Valle. Un’eleganza non ostentata la sua, un blazer scuro di taglio sartoriale, in un ufficio sobrio tempestato, con nonchalance, di piccole gemme di Gino De Dominicis ed Emilio Prini che fanno capolino, a intermittenza, sulle pareti imbiancate.
Dottor Jacorossi, dopo diversi decenni ha fatto ritorno dove tutto è cominciato?
«Sì, nell’antico rione Parione di Roma, in via dei Chiavari, dove tutti siamo nati. Musia nasce proprio quasi nel punto preciso da quel piccolo negozio dove, negli anni Venti del secolo scorso, la rivendita del carbone inaugurava quella che sarebbe stata l’ascesa imprenditoriale della mia famiglia nel campo degli impianti e dei servizi energetici».
Musia, vista dell’allestimento, OKNOstudio
La sua è una tipica storia di self-made man da miracolo italiano.
«Ancora giovanissimo, a sedici anni, mi sono trovato sulle spalle il negozio aperto da mio nonno Agostino, a causa della prematura scomparsa di mio padre, a soli quarantasette anni. Mi sono messo sotto insieme a mia madre e a mio fratello Angelo. Una volta divenuto maggiorenne, si è aggiunto a noi anche l’altro fratello, Giancarlo. Eravamo tre fratelli pieni di idee, scatenati, molto affiatati. Di origine contadina con radici a Leonessa, nel reatino, ma con il piglio innato per fare impresa. Nel corso dei decenni successivi abbiamo consolidato un gruppo divenuto in Italia, nel suo settore, il decimo privato per fatturato».
Come è avvenuto il suo primo incontro con l’arte contemporanea?
«L’imbarco con l’arte contemporanea, come mi piace definirlo, si deve a un mio compagno di classe del liceo Ovidio, Giuseppe Gatt, critico d’arte, segretario generale della Quadriennale di Roma, nonché teorico della Nuova Maniera Italiana. All’inizio degli anni Ottanta lo portai a visitare la nostra nuova sede aziendale all’EUR, in via Brancati. Fu lui, in questa occasione, a darmi l’idea di allestire in tutto l’edificio di sette piani un museo “vivo” di arte contemporanea, una collezione permanente da rendere accessibile e condividere in maniera disinvolta con dipendenti, collaboratori, fornitori, clienti. Accolsi subito il sogno del mio amico. Compresi dal primo momento che le opere d’arte avrebbero scosso e accentuato il potenziale creativo delle persone. E così è stato. All’inizio del Duemila il gruppo di famiglia si è sciolto. Ma oggi la nostra collezione di 2.500 opere rivive tra le pareti di Musia. Insomma, torna ancora una volta il binomio arte-impresa a sostenersi l’un l’altra e a scuotere il potenziale creativo della collettività. Che oggi ritengo appiattito come mai».
Emilio Prini Conferma partecipazione esposizione 1970 Stampa su cartoncino, cm 50 x 70 Collezione Ovidio Jacorossi, Roma Crediti fotografici: Giorgio Benni, Giulio Benni
Qual è stato il numero uno della sua collezione?
«Un dipinto di Riccardo Francalancia che ancora possiedo. Ricordo come se fosse ieri che incontrai questo artista, di statura piccola, con la scoppoletta nera, proprio da Giuseppe Gatt, nel suo ufficio vicino a Palazzo delle Esposizioni. Parlammo per un po’. Me ne uscii da quell’incontro con il mio primo quadro sotto il braccio. Da allora, come riuscivo a ritagliarmi qualche scampolo di tempo dal lavoro, andavo alla ricerca di qualche altro pezzo. A un’asta acquistai tre opere di Karel Appel. Ben presto, tuttavia, cominciai a orientarmi esclusivamente sugli artisti italiani e, in particolare, romani. Complice, tra l’altro, l’amicizia e la consulenza di Plinio De Martiis, titolare nella capitale della celeberrima Galleria La Tartaruga. Fu lui, per esempio, a instillarmi l’amore per gli artisti di Piazza del Popolo, Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli in testa. E, poi, c’è stato Pio Monti, dopo Leo Castelli, il più geniale dei galleristi. Alcuni non condivideranno questo mio giudizio, ma è quello che penso. Grazie a lui ho comprato i miei primi Prini e De Dominicis».
Con i suoi fratelli ha condiviso anche la passione per l’arte contemporanea e il suo collezionismo?
«Non inizialmente, quando anzi sono stato addirittura ostacolato. L’unico, oltre a me, ad avere nei primi anni una certa sensibilità al riguardo era Giancarlo, che però preferiva acquistare nature morte del Seicento».
Studio Azzurro IL TEATRO DI POMPEO 2017 Video installazione Collezione Ovidio Jacorossi, Roma
Ci sono opere che ha venduto per poi pentirsi?
«L’impresa ha finanziato lo sviluppo della collezione. Ma anche la collezione è venuta, in più di un’occasione, in soccorso dell’impresa, sacrificando alcuni dei suoi pezzi quando è stato necessario “fare cassa” per finanziare lo sviluppo e gli investimenti. Come l’acquisto della società petrolifera Texaco. Mio nonno diceva che un imprenditore non deve mai piangere sul latte versato. Eppure io ho alcuni, velati, motivi di rammarico. Penso, innanzitutto, a delle rare Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla, a una grande combustione di Alberto Burri (che in tempi recenti ho visto superare in asta gli otto milioni di euro d’aggiudicazione), a tre dipinti dei primi anni Cinquanta di Giuseppe Capogrossi».
Giacomo Balla, Autoritratto Tricolore 1927 Olio su tela entro cornice in legno dipinto, complessivi cm 127 x 124 Firma e titolo entro il contesto dell’immagine Collezione Ovidio Jacorossi, Roma Crediti fotografici: Giorgio Benni, Giulio Benni
Qual è l’artista di cui ha il ricordo più affettuoso?
«Sono due: Mario Schifano ed Emilio Prini, entrambi collegati a tanti aneddoti che hanno costellato la nostra amicizia. Per esempio, di Schifano acquistai l’intera mostra tenuta nel 1990 a Palazzo delle Esposizioni. Cinquanta opere monumentali. Le custodivo in un caveau a San Lorenzo. Un giorno la falegnameria confinante si incendiò e il calore danneggiò i dipinti. Feci il primo sopralluogo sul posto con Mario e un paio di restauratori, a cui chiesi come sarebbe stato il caso di intervenire. Allora Schifano esclamò: “Non le toccare, sono più belle di prima!”. E aveva ragione. Come risultò ancora più evidente quando pubblicai le tele dell’incendio in un catalogo, con l’immagine a fronte delle opere prima del sinistro. Un vero e proprio caso di creazione sulla creazione. Per quanto riguarda Prini, mi piace ricordare questo episodio. Emilio era solito prendermi in giro sulla mia conoscenza dell’arte contemporanea. Diceva che ci capivo poco o niente. Allora, un giorno, gli scrissi una lettera nella quale ammettevo che, al riguardo, lui ne sapesse più di me. Ma affermavo anche il mio convincimento che nell’opera d’arte contemporanea non ci sia molto da capire, piuttosto da interpretare e che l’interpretazione sia lo strumento di una creatività allo stato puro, con cui chiunque, senza complessi di inferiorità, può entrare all’interno di un’opera e incontrare la creatività dell’artista, che è sempre ugualmente allo stato puro. Dopo due settimane dalla lettera, Prini mi mandò a chiamare. Quindi si fece leggere la lettera dalla sua assistente. Parola dopo parola lo vidi annuire con la testa e, poi, cominciare a sorridere, cosa che non faceva mai. Era il suo modo per esprimere la sua condivisione al pensiero che avevo espresso. Fu un’emozione grandissima. Da allora non fece mai più a meno di vedermi. E guardi che non c’erano interessi economici sottesi: io da lui ho acquistato solo un’opera!».
Cesare Biasini Selvaggi
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aveva ragione prini