Categorie: Personaggi

Paesaggio, pittura e astrazione modulare

di - 29 Gennaio 2017
Left Behind è il titolo di una delle opere inedite presentate nelle retrostanze della Reggia di Caserta. La mostra, a cura di Luca Beatrice, ha lo stesso titolo di questa prima opera, quasi fosse un manifesto che, più che lasciarsi dietro – in senso di superare qualcosa- suggerisce la volontà di un giovane artista di svelare tutte le possibilità del proprio fare pittura.
Nato a Battipaglia, classe ’84, Paolo Bini ha il proprio studio ancora nella sua città di origine. Formazione da scenografo, poi un percorso da artista fatto di molti viaggi personali, qualche residenza all’estero e una felice collaborazione con un giovane gallerista campano, fino al conferimento del Premio Cairo 2016. Oggi, la sua personale occupa le retrostanze già sede della collezione Terrae Motus, in un allestimento accuratamente pensato e progettato per gli spazi ottocenteschi.
Ad accogliere i visitatori il colpo d’occhio delle tre opere illuminate come iridescenti. Esse non sono più composizioni fatte di nastri colorati e sovrapposti su supporto, cosiddette astrazioni modulari, secondo la tecnica ormai più conosciuta dell’artista, ma griglie ottenute dall’assenza del colore, come tracce di innumerevoli passaggi.
Cosa puoi dirci di questa prima stanza?
«Left behind è il manifesto della mostra, La stagione dell’amore dialoga con la primavera sul soffitto, con le modanature, gli stucchi, tutti gli elementi caratteristici della reggia che tanto mi  colpirono già vedendo Terrae Motus tanti anni fa. Salto nel buio perché all’inizio ho lavorato al buio, inconsapevolmente. Per la prima volta presento queste pitture che nascono in realtà come piani da lavoro. Non è facile sapere di avere uno scheletro e mostrarlo…Questa stanza racconta una forma mnemonica del tempo semplicemente perché queste griglie sono tracce mnemoniche di quello che c’è stato, svelano cosa c’è dietro ad un lavoro: ciò che resta di un dipinto».

Hai una formazione da scenografo, hai studiato all’Accademia delle Belle arti di Napoli. Quando hai deciso che le scenografie sarebbero diventate delle opere?
«Mi piaceva il mondo del teatro, ma al terzo anno ho capito che forse mi piaceva solo l’idea di quel lavoro. Ho sempre dipinto, ma non è mai successo che le scenografie diventassero delle opere, probabilmente più la messa in scena del mio lavoro viene dalla scenografia. Tutta questa mostra ha un impianto scenico che viene dagli studi che ho fatto, non intendo strettamente il posizionamento delle opere, ma la natura della progettualità della mostra. In questa seconda stanza, ad esempio, ho messo insieme molti quadri singoli che richiamano il classico metodo di allestimento delle quadrerie borboniche (anche la Reggia ha un ambiente che si chiama quadreria ed è il mio ambiente preferito). Monocromie realizzate con tecniche diverse, ma di fondo c’è sempre un colore a base di acqua come acrilico o pigmenti purissimi come il giallo e il blu, che compongono una grande opera policroma».
In questi anni il tuo lavoro è stato descritto come una combinazione di astrazione modulare e espressionismo astratto: quali sono i tuoi artisti di riferimento?
«Nella sua prima forma l’espressionismo di Mondrian e Kandinsky, negli astratti Rothko, Pollock, Kline, De Kooning, ma in particolare gli artisti viventi che estendono in maniera originaria e originale alla pittura. Richter, Kiefer, Schnabel, Baselitz, un po’ più distante ma con grande potenza e intensità espressiva Clemente, Sterling Ruby. In particolare Richter».
Veniamo all’opera site specific realizzata su parete. A guardarla vengono in mente gli spray paintings di Sterling Ruby, ma anche guardare un paesaggio dalle veneziane o da una macchina in corsa. Da una parte una sorta di velocità dell’immagine a cui siamo abituati, dall’altra parte, come riflette Valerio Dehò scrivendo della tua ricerca, l’astrazione è come un riposo che ci concediamo dal bombardamento delle immagini. Sono vere entrambe?
«Si, assolutamente, anche perché quando un artista lavora con l’astrazione, ogni volta che compone  qualcosa che non appartiene al campo iconografico si consegna alla sensibilità del mondo. Queste osservazioni sono entrambe bellissime e, come le parole dei curatori,  mi completano e mi aiutano, perché quando un artista fa un lavoro non è detto che riesce a vederlo in tutta la sua interezza».
Questo tipo di lavori si riferiscono ad uno specifico paesaggio?
«È come se ogni tanto mi dessi appuntamento con questo paesaggio e succede una forma di trasfigurazione.  Questa è la mia più recente opera realizzata e anche la prima dopo mesi in cui sono stato impegnato al progetto di allestimento. Trovo che sia misterioso, perché non l’ho realizzato nel mio studio, poi un domani verrà ricoperto e rimarrà sotto nuovi strati di pittura nel tempo. L’immagine ricorda per certi aspetti l’idea di profili montuosi, architetture naturali, di cielo, ma in fondo questo non è altro che un processo che appartiene alla cultura dell’immagine oggi. Il mio ultimo lavoro con le strisce è  un racconto di quella che è oggi l’immagine, percepita tramite pixel e frame, e quindi è un po’ come si compone un’astrazione, o come il filo tra astrazione e figurazione (se esiste) ha un costante bianco tra le parti».
Però a differenza dei tuoi paesaggi precedenti, come quelli ispirati alla Grecia ad esempio, questo non ha un titolo dalla connotazione geografica e lo stesso succede con Luoghi del Sé, con cui hai vinto il premio Cairo. I titoli sembrano indicare luoghi metaforici e interiori.
«Si perché è come se non tempo avessi assimilato la condizione geografica e sto approfondendo quella spirituale dei luoghi, come trasfigurati».
Belgrado, L’Avana, Sud Africa e Cape Town. Nel mondo dell’arte l’enorme diffusione dei progetti di residenza raccoglie pareri contrastanti, ma è interessante conoscere le conclusioni degli artisti che ne partecipano. C’è anche da dire che, nel tuo caso, dopo la residenza in Sud Africa nel  2013 il tuo metodo con la carta sagomata sembra mettersi a punto definitivamente. Qual è l’importanza o l’influenza delle residenze nel tuo percorso in generale…
«L’Avana e Belgrado le associo anche ai miei viaggi in Grecia, comunque momenti di crescita e di incontro con l’altro. In quelle occasioni ho trattato temi come la dissolvenza o l’atmosfera. Questi sguardi su paesaggi diversi mi sono serviti tantissimo a costruire il mio lavoro. Più di recente sono stato il primo artista a inaugurare ARP, progetto  sostenuto anche dal ministero che gemella l’Italia con il Sud Africa, invenzione del magnifico Centro di Sarro che mi ha segnato in molte cose e mi ha permesso di conoscere una città molto dinamica come Cape Town, capitale mondiale del Design in continua crescita».
Questa mostra è stata realizzata con il Matronato del Madre e la collaborazione della galleria Nicola Pedana. Quanto è importante per un’artista come te avere un gallerista che ti supporta nel contesto locale?
«È importante perché ti da la possibilità non solo per vendere i quadri, ma di avere una visibilità internazionale. Ma soprattutto il modo in cui stiamo lavorando insieme, io e Nicola, mi fornisce stimoli, spunti. Negli ultimi quattro anni ci siamo conosciuti, abbiamo fatto dei viaggi e al di l à del rapporto gallerista/artista c’è un legame di amicizia che non nascondo e che viene da un idea di fare le cose con sacrificio e con passione».
Idee per il futuro?
«La pittura. Tirar fuori questa riappropriazione di un sentire che è la parte esclusiva del mio percorso più recente».
Roberta Palma

Nata ad Aversa nel 1988 si è specializzata in arte contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Ha collaborato con diverse realtà di Roma e Milano, dalle gallerie al no-profit. Dal 2013 al 2015 fa parte del collettivo internazionale 7x8curators. Attualmente parte di un progetto di ricerca didattica presso il Mart di Rovereto, collabora con Exibart dal 2014.

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