Una vasta antologica in corso al Chiostro del Bramante di Roma, eppure ti definisci “più mastro che maestro”. Che significa?
Il mastro lavora dal basso e per lo più con le mani. E soprattutto, fa quello che deve fare. L’Italia è stato –ed è tuttora– il paese più ricco al mondo di artigiani di altissima levatura. Come si diceva una volta: “artieri dai mille mestieri”. Pensa addirittura a Leonardo… Dobbiamo immaginarlo mentre produce di tutto: da un belletto a un giochino, fino a un un’opera di canalizzazione. Oggi invece… Quanti “maestri” si servono dei “mastri” ma se ne fregano di rivendicare la loro presenza!
Artista tra i fumettari, fumettaro tra gli artisti. Per non parlare, poi, della letteratura… Un vanto nell’Italia dei titoli. A chi sei più antipatico: agli artisti artisti o ai fumettari fumettari?
Antipatico lo sono a tutti, credimi. Ma soltanto perché i recinti sono ovunque. Ed è curiosamente cosa molto italiana, l’insofferenza per quella contaminazione che a parole tutti rivendicano. Uno come Keith Haring, invece, viene dalla strada davvero. Pensaci: cosa è mai stato sussunto dalla strada, qui? La moda, forse!
Allora siamo al paradosso? Coi mastri che anziché starsene al chiuso –come il termine lascerebbe intendere– saltano gli steccati e contaminano linguaggi e registri, e i maestri cosiddetti che si nascondono e non insegnano affatto?
Sicuramente. Ma a mastro e maestro lasciami aggiungere qui un terzo personaggio: il mostro… Perché la parola davvero orribile, per me, è maestro”. Sancisce una distanza, una differenza. Dividere gli uomini in “artisti” e “non artisti” non è già una prevaricazione?
Hai detto che in una galleria privata “se compaiono tre visitatori al giorno, è già un successo”. È ancora così? E a Roma in particolare? La percepisci questa “rinascita romana”?
Questo dovresti dirmelo tu… Ai vermissage (con la “emme”, come li chiamo io) di sicuro vai più di me… Però posso assicurarti che negli anni ’70 eravamo anche di meno. Ma più allargati e mescolati. Trovavi un “guttusiano” iper-figurativo tranquillamente al tavolo con Franco Angeli. Oggi ci si divide addirittura per gallerie: guai a frequentarne una che non sia in sintonia con quella di riferimento! Che poi è soltanto la paura, da parte di tutti, di perdere clientela e soldi. Questo sì che è davvero mostruoso, questo ridurre tutto a una torta da dividersi. Evidentemente di una torta di pezzenti si tratta. Altrimenti non vedresti tanti colleghi evitare di presentarti qualcuno cui hanno venduti dei quadri, nel timore che ne compri uno anche a te!
Sbilanciati! Un manifesto, un acrilico, un pamphlet dei tuoi, un orologio Swatch: qual è la cosa migliore che hai fatto?
Il rinoceronte presentato nella retrospettiva al Chiostro del Bramante. Le mani lì ce le hanno messe davvero in tanti: almeno in dieci. È la cosa più bella. È Il mio obelisco: un omaggio a Roma, alla decorazione a grottesca della Domus Aurea e all’elefante in Piazza della Minerva. In più regge un obelisco ma è anche un obelisco in sé: il rinoceronte, nella sua stessa costituzione fisica, ne porta già uno in fronte…
È vero che volevi diventare un bassista? In effetti molti dei tuoi quadri danno la sensazione di vorticosi “giri di basso”…
Lo facevo tanti anni fa, ma ero una sega totale. È l’unica cosa che non ho più fatto. Ritrovarmi in un negozio di chitarre elettriche è il mio sogno più ricorrente. Immerso in quell’odore magico di corde, del legno dei manici e di vernici plastiche. Forse perché vivo con i Ramones sempre in sottofondo. Li ascolterei all’infinito…
Ci ho pensato molto, a quest’occhio un po’ trasognato che dici: ritengo sia assimilabile a quello della pittura dadaista di Julius Evola. L’unica prodotta in Italia, se ci pensi. Il pop, invece, proprio no: non credo di riconoscerlo nei miei lavori. Non ho mai assunto dall’immaginario collettivo un qualsiasi oggetto per poi dire, alla fine però sublimandolo, “ecco il brutale di cui vi cibate”. Per questo ho praticato il fumetto: perché nel popolare bisogna invece inserirsi. Amo Fortunato Depero perché è popolaresco. L’opposto che pop.
Che succede alla tua pittura? Il colore adesso ha una funzione che definirei balsamica: lo aggiungi a dripping in un contesto iconografico più ostico del solito, a tratti drammatico…
Ultimamente faccio quadri un po’ forti, è vero. “Questa violenza non ti appartiene, perché la insegui?”, mi dicono in tanti. Tristan Tzara di una cosa diceva di non chiedersi cosa significa, ma come funziona. Perché uno faccia ciò che fa, non lo sa mai fino in fondo. Comunque interpretare “Jack the dripper” è terapeutico. Ti spiego: ero devastato da macchie della pelle. Nel giro di tre mesi, drippeggiando, me ne sono completamente liberato!
Quelle macchie sono finite sulla tela…
Ho fatto cromoterapia! L’impianto è all’opposto la vecchia grisaglia, grigia o marrone, che poi lumeggio di bianco. Infine libero il colore. Mi hanno sempre ossessionato l’idea del riempimento e la bellezza del mostruoso. Penso all’horror vacui dei mostri aggrovigliati sulle cattedrali gotiche. Non stanno lì per spaventare, semmai servono a confondere il Maligno. Hai mai notato che hanno una tripla fila di denti? L’immaginario mostruoso non mira a spaventare te, ma le tue paure. È esorcismo. E
Ami il gotico ma sembri un manierista…
Ma non perché mi piaccia. Semmai perché lo sono.
Insomma, dopo tanta ironia ora dobbiamo aspettarci il rovescio della medaglia?
Credo di sì. Ma non sono mai stato quel “ludico” che tutti credono. In proposito ricordo di certi miei quadri scelti per una grande mostra. Al momento dell’allestimento –improvvisamente– erano “troppo colorati”. “Sa com’è” –mi spiegarono– “tutt’intorno ci sono monocromi, tonalità sabbiose, terree…”. Questo dissero: ti rendi conto? Prendi i “quadratini” degli anni ‘70 che aprono questa mostra: sono stati sempre bollati quale “figurazione”. E invece sono assolutamente anti-figurativi! Sono pagine minimaliste. Da rilegare –duchampianamente– e non da incorniciare.
a cura di pericle guaglianone
[exibart]
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