Christiane Rekade dalla scorsa estate è il nuovo curatore di Kunst Meran/Merano Arte. L’abbiamo incontrata per farci raccontare i nuovi progetti e le sue prime impressioni perché, quando cambia la direzione artistica, anche se si è allo stesso indirizzo, si incontrano altre storie e sintonie, che ci danno la possibilità di rivedere gli spazi secondo altre disposizioni.
Che effetto fa passare da Berlino a Merano che, nonostante la densità di popolazione decisamente ridotta rispetto a quella di una capitale, sembra avere comunque i presupposti per un’apertura alla sperimentazione?
«È stato un grande e importante cambiamento. Ero consapevole di cosa mi lasciavo alle spalle ma, allo stesso tempo, ero certa che avrei trovato qualcosa che a Berlino non c’era. Berlino è una città grande con un’offerta culturale fuori dal comune, ma anche con tantissima concorrenza e con poche istituzioni. Oltretutto Kunst Meran/Merano Arte sia per le dimensioni che ha, ma anche e soprattutto per come è strutturato e per la sua storia, è un luogo speciale, in cui è possibile fare sperimentazione e lavorare a stretto contatto con gli artisti, come accade nei Kunstverein, e che, per i mezzi e per gli spazi di cui dispone, non ha nulla da invidiare a musei più grandi».
Merano appare geograficamente dislocata. È possibile costruire qualcosa in un luogo decentrato?
«Solo ad un primo sguardo Merano può apparire periferica, in realtà è situata in un punto nevralgico: la sua vicinanza all’Austria, alla Germania e alla Svizzera e la sua posizione di collegamento/passaggio tra il Nord e il Sud dell’Europa la rendono un osservatorio privilegiato sull’Europa. Non sono tanti i posti in cui la cultura di lingua tedesca e quella di lingua italiana si incontrano/scontrano come accade qui. La Regione ha molte risorse. Istituzioni come Museion, il Mart e la Galleria Civica di Trento, collezioni private come ADN collection, spazi no-profit come ar/ge Kunst e poi ci sono iniziative come Lungomare, BAU, la Kunsthalle di Lana e i residency program come Eaux e Gaz e altri. Tutte queste realtà contribuiscono a rendere il lavoro in quest’area molto stimolante».
Come è nata l’idea per la sua prima mostra qui?
«È partita da una serie di lavori di Paolo Chiasera – da cui ho anche preso in prestito il titolo exhibition paintings–. Paolo lo conosco da tanti anni, da Berlino. È un artista complesso, il cui lavoro richiede una particolare attenzione. Ho sempre voluto approfondire il discorso sulle “mostre dipinte” e nel farlo mi sono accorta che quello che stava facendo Chiasera, lo stavano facendo anche altri artisti, più o meno nello stesso periodo, con approcci e risultati diversi ma, talvolta, anche sorprendentemente vicini. La mostra raccoglie e mette in relazione tra loro i lavori di Charles Avery, Paolo Chiasera, Dorothy Miller, Martin Pohl, Lea von Wintzingerode e Amelie von Wulffen. La principale qualità del lavoro di questi artisti è quella di riuscire ad aggirare gli ostacoli che normalmente si incontrano – specie di questi tempi – nella produzione “convenzionale” di una mostra. Queste exhibition paintings sono un atto di resistenza e di speranza che, usando la fantasia come arma principale, ci regalano mostre visionarie che nel mondo reale non sarebbero state possibili».
Cosa ne pensa del ruolo del curatore oggi?
«Il mestiere del “curatore” come lo intendiamo oggi, è abbastanza recente. L’immagine del curatore freelance che crea delle mostre un po’ come un artista è stata “inventata” da Harald Szeemann negli anni ‘70. Credo che ai tempi di Szemann i curatori avessero più libertà. Per la mia generazione le cose sono un po’ diverse. Siamo in tanti, le occasioni per lavorare con budget importanti si sono di molto ridotte, i tempi per sviluppare, realizzare e per vedere le mostre si sono accorciati. Curare può significare tante cose oggi e questo non sempre gioca a vantaggio della “pura” disciplina».
In che ruolo si colloca lei?
«Mi vedo come un “mediatore”, come qualcuno che aiuta e sostiene gli artisti nella produzione, nella presentazione e la comunicazione del lavoro. Cerco sempre di creare le condizioni e offrire i mezzi necessari agli artisti per poter realizzare il proprio lavoro al meglio».
Non pensa che il curatore, che crea connessioni fra idee, artisti e luoghi trovando la formula giusta per comunicare il lavoro dell’artista, abbia un ruolo di grande responsabilità?
«Certo! Ed è per questo che penso che oggi il curatore debba fare un passo indietro mettendo l’artista nelle condizioni di fare il proprio lavoro al meglio. Il curatore deve prendersi cura dell’arte, del suo stato di salute, non solo dell’allestimento della singola mostra. Per questo mi piace lavorare più volte con un artista, osservando come la sua ricerca si evolve negli anni. Costruire un dialogo tra diverse generazioni e valorizzare l’arte locale mettendola sempre in relazione al dibattito internazionale sono due aspetti importanti del senso di responsabilità che chi fa questo mestiere dovrebbe avere».
A volte poi sembra che questo ruolo sia uno e sempre uguale. È bello invece scoprire che ci sono molti modi di essere curatore, come ci sono molti modi di essere artista.
«Sì, ci sono molti modi, e diversissime condizioni di lavoro. Queste cambiano in funzione del periodo storico e del luogo in cui ci troviamo. Detto ciò però ci sono secondo me delle urgenze che oggi, almeno in Europa, ci accomunano più di un tempo. Credo che le grandi collettive con tanti artisti di cui però si vede solo un lavoro non servano più a molto, né al pubblico né agli artisti. Non dico che la mostra collettiva non abbia più senso, dico solo che dovrebbe affrontare temi specifici e lasciare sufficiente spazio ai singoli artisti. Le mostre personali invece dovrebbero permettere agli artisti di realizzare dei nuovi lavori, mettendoli magari in relazione a quanto già fatto così da permettere al pubblico di “entrare” meglio nel lavoro dell’artista».
Nella sua carriera ha portato avanti alcuni progetti quasi senza un budget a disposizione; l’arte ha bisogno di tutti questi soldi per sopravvivere?
«Sì, l’ho fatto all’inizio, con la curatrice, e ora direttrice dello studio Olafur Eliasson, Caroline Eggel. Insieme abbiamo realizzato delle mostre occupandoci di tutto noi, dai finanziamenti allo spazio. Per “Longing balloons are floating around the world” – una serie di mostre che hanno avuto luogo tra il 2005 e il 2006 a Berlino – l’artista Riccardo Previdi ha realizzato per noi uno spazio espositivo pensato esclusivamente per questo progetto: Il “Greenlight Pavilion”, una sorta di Kunsthalle temporanea, in cui, tra gli altri, artisti come Tomas Saraceno, Monika Sosnowska e Lara Schnitger hanno avuto la possibilità di mostrare,e in alcuni casi di veder prodotto, il proprio lavoro. Questo progetto è stato possibile grazie ad un finanziamento pubblico e al supporto di vari sponsor ma anche e soprattutto grazie all’aiuto, all’entusiasmo, all’energia e al lavoro – spesso, va detto, non retribuito – di tante persone. Ma ovviamente non si può, e non si dovrebbe, lavorare sempre così. L’arte non può vivere di solo entusiasmo, per occuparsene occorrono soldi. Certo, anche in scarsità – o addirittura in assenza di mezzi – si posso attuare delle strategie alternative. Molti progetti spontanei sono portatori di un’energia speciale che si traduce poi in nuove idee. Per un lavoro più strutturato però e per garantire longevità ai progetti e alla carriera degli artisti è fondamentale un supporto economico commisurato agli obbiettivi che ci si prefigge, costante e duraturo nel tempo. Tutte cose non scontate, di questi tempi, ma per cui è molto importante battersi».
Quale pensa sia il rapporto del pubblico con questo museo? Il pubblico è abituato a vedere le mostre o bisogna in qualche modo abituarlo?
«Il programma che farò io sarà diverso del programma degli ultimi anni. Così ci saranno sicuramente degli aspetti nuovi a cui il pubblico meranese si dovrà abituare. Ho notato però che il pubblico di Merano è curioso ed interessato. Oltre a ciò, non bisogna dimenticare che una grande parte del pubblico di Kunst Meran/Merano Arte sono anche i turisti. Di questo aspetto bisogna tenere conto, non tanto nella programmazione quanto piuttosto nel lavoro di comunicazione e mediazione culturale. È vero, Merano è molto più piccola di Berlino, ma proprio per questo è anche normale che la curiosità e l’attenzione verso quello che facciamo sia maggiore. La probabilità che le mostre che proponiamo accendano una discussione, un dibattito, suggeriscano direzioni o aprano interrogativi è molto più alta che in una grande città e questo è senza dubbio molto stimolante».
Cinzia Pistoia