Con Annette Messager si inaugura Une, il nuovo ciclo di mostre personali di artiste donne, curato da Chiara Parisi, per l’Accademia di Francia a Roma. Messager presenta 17 opere lungo un percorso che va dalla Galleria fino all’Atelier del Bosco passando attraverso il giardino. Messager torna ad esporre in Italia dopo Casino, che vinse il Leone d’Oro alla Biennale del 2005,e firma una mostra magica e misteriosa, di grande rigore e significato. La incontriamo nel caffè della Villa, la mattina dopo la preview della mostra.
Come ha concepito la mostra per Villa Medici?
«Sono venuta a visitare gli spazi che sono davvero particolari, poi Chiara Parisi mi ha suggerito di fare qualcosa anche nei giardini, e infine mi sono interessata all’Atelier di Balthus, che era un personaggio importante. Mi ha colpito soprattutto la rampa dove salivano i cavalli».
Come mai?
«Avevo già fatto nel 2000 un’opera in una sala del Palazzo dei Papi ad Avignone, con una serie di uccelli impagliati mascherati con teste di peluche, forse per nascondersi o diventare più simpatici. Erano appoggiati su degli specchi, in modo da vederli e dello stesso tempo specchiarcisi. Per questo avevo chiamato l’opera Eux et nous, nous et eaux (Loro e Noi, Noi e Loro) e l’ho riallestita qui, sopra la rampa.
Ci sono molti animali nella mostra. Perché?
«Si, mi piacciono molto gli animali. In fondo anche noi siamo animali, e come loro ci mascheriamo e ci nascondiamo».
A prima vista è una mostra fiabesca.
«Non del tutto. Penso soprattutto alla Histoire des traversins (Storia dei cuscini cilindrici, 2004-2005) che per me rappresenta le battaglie di cuscini che si fanno da bambini, mentre il tessuto a righe ricorda i prigionieri, e le forme sono falliche. Avevo fatto una mostra a Calais, dove ci sono molti problemi con i migranti, come qui in Italia. Infatti c’è un’opera nella mostra 3 Pantins PQ (3 burattini, 2015) con tre pupazzi dai quali partono tre rotoli di carta igienica srotolati fino al pavimento, perché a Calais uno dei problemi più sentiti dai migranti era proprio la pulizia e l’igiene personale».
Un’opera più politica?
«Mi piace giocare con la realtà ma in maniera metaforica, ma mi rendo conto che viviamo in un mondo pieno di problemi. Per questo recentemente ho cominciato a disegnare degli uteri, perché molti Paesi hanno cominciato a rimettere in questione l’aborto».
Come nell’opera sulla parete dell’Atelier Balthus?
«Esatto. Trovo che l’utero abbia una bella forma, simile a un fiore. È stato molto piacevole realizzare quel lavoro, intitolato Les utérus fleurissent chez Balthus (Gli uteri fioriscono da Balthus, 2016)».
Le opere in mostra sono state tutte realizzate per l’occasione?
«La carta da parati con gli uteri disegnati si, e anche la piccola Gioconda, intitolata Balthutérus (2016) che è un omaggio all’Italia. Anche la Fontana coi serpenti nel giardino è stata pensata per Villa Medici, che mi ha molto ispirato».
La fontana con i serpenti sembra un’opera manierista, e mi pare molto riuscita.
«Avevo molta paura che quei serpenti di gomma, che si comprano su Internet, non funzionassero, ma invece sembra che quella fontana sia sempre stata lì. Del resto Villa Medici è un luogo grandioso ma difficile, bisogna battersi con gli spazi».
Torniamo al suo passato di artista donna. Quando ha cominciato negli anni Settanta non era una condizione facile.
«Ricordo che all’epoca avevo esposto a Milano nella galleria Diorama, che lavorava con Gina Pane e Urs Luthi. Mi dicevano che per le donne in Italia era più difficile, ma non ero sicura che fosse vero. Ricordo che avevo esposto una serie di 200 proverbi sulle donne, tutti negativi, che avevo ricamato su dei fazzoletti. Gli spettatori erano d’accordo sui proverbi, e si chiedevano come mai una donna avesse potuto realizzare un’opera di quel genere. Non sono rivendicativa come le artiste americane tipo Louise Bourgeois, preferisco una posizione più defilata e inquietante».
Qual è il rapporto con Louise Bourgeois?
«Mi detestava. Ci siamo incontrate al MoMA e mi ha voltato le spalle. Penso che fosse una persona difficile, che aveva dovuto superare mille difficoltà e queste l’avevano indurita».
E lei non ne ha avute?
«Altro che! Mi hanno picchiato, mi hanno trattato come una prostituta e tante altre cose».
Per quale motivo?
«Avevo fotografato le mutande degli uomini, con l’obiettivo puntato sulla patta, e questo non era stato accettato: era un soggetto tabù».
Nella mostra c’è un’opera che fa riferimento a Pinocchio, Casino Pinocchio (2004-2005). Come mai?
«Amo molto Pinocchio, che considero opposto ad Alice nel Paese delle Meraviglie. Alice è una bambina borghese, mentre Pinocchio è povero e viene dal popolo. Geppetto è Giuseppe (penso ci sia un rapporto con la Sacra Famiglia), uno scultore che è diventato falegname per guadagnarsi da vivere, che riesce a scolpire da un pezzo di legno un burattino, che prende vita: il sogno di ogni scultore! Inoltre, Pinocchio è un po’ come un artista, non vuole avere una vita regolare, dice bugie, non vuole andare a scuola, fa solo cattivi incontri…È una figura che mi piace».
Era già stata a Villa Medici?
«La prima volta era il 1969, quando ero ospite di due amici artisti, Anne e Patrick Poirier. Mi ricordo che vidi alla televisione lo sbarco sulla Luna. Poi ho esposto alla mostra La ville, le jardin, la mémoire, realizzata sotto la direzione di Bruno Racine. Avevo legato tra loro le statue delle Niobidi, nel giardino della Villa, che erano circondate da piante di acanto».
Cosa pensa dell’attuale direttrice?
«Mi piace molto, ha un grande desiderio di aprire la villa all’esterno. Viene dal teatro, è molto generosa e mi pare che abbia molta energia, come Chiara Parisi, che apprezzo molto come curatrice».
Il suo lavoro è realizzato con materiali semplici, e arriva in maniera diretta. È una scelta?
«Amo molto la frase di John Baldassarri “No more boring art”. A volte l’arte concettuale è troppo ermetica».
Quando ha deciso di essere artista?
«Mio padre era architetto, e diceva “Sono come Le Corbusier: il mattino dipingo e il pomeriggio faccio l’architetto”. Da piccola gli rubavo le matite, i colori, la carta da lucido, a differenza di mio fratello, che non era interessato a quel mondo. Da lì è nata la mia passione per l’arte».
Ludovico Pratesi