Categorie: Personaggi

QUANDO SI SCHERZA BISOGNA ESSERE SERI

di - 8 Dicembre 2010
Uno stile sempre asciutto. Levatura morale. Lucidità di
sguardo. Feroce ironia. Mai un compiacimento. Mai una furberia o una sequenza
ricattatoria. Eppure era un intellettuale che parlava a tutti, Mario Monicelli (Viareggio, Lucca, 1915
– Roma, 2010), ultimo testimone di una stagione di maestri che coniugavano
impegno sociale e leggerezza popolare al contempo, creatori di immagini iconiche
scolpite nella memoria collettiva del Paese. Un artista nazional-popolare,
nella sua più alta e gramsciana accezione.

Sembravano film leggeri o solo autoironici, i suoi. In realtà,
valgono più di qualsiasi trattato di sociologia. Perché Monicelli è riuscito a
cogliere meglio di chiunque altro la vera anima degli italiani, sin dai tempi neorealisti,
quando affrontava con la commedia, in coppia con Steno e con una maschera come quella di Totò, diversi temi sociali come
la crisi degli alloggi (Totò cerca casa,
1949), gli stenti e i sotterfugi nella Roma del dopoguerra (Guardie e ladri, 1951), i problemi della
burocrazia e la prepotenza al lavoro (Totò
e i sette re di Roma
, 1952), le tensioni sociali e politiche di metà anni ‘50
(Totò e Carolina, 1955).

In seguito, il grande Mario non ha fatto altro che mostrare
l’homo italicus nei suoi più bassi
istinti, denunciandone e deridendone usi e costumi, dal boom economico alle
soglie del nuovo millennio. Il bisogno di trasgredire la norma e le regole,
come chi cerca maldestramente di rubare pur di non lavorare (I soliti ignoti, 1958). La patologica
ricerca di scorciatoie, come quella di chi arriva persino a chiedere aiuto ai
poteri occulti e alla massoneria pur di trovare “il posto” al proprio figlio (Un borghese piccolo piccolo, 1977). L’arretratezza
morale di costumi dei proletari meridionali (La ragazza con la pistola, 1969) e la ristrettezza mentale della
classe operaia settentrionale (Romanzo
popolare
, 1974). La disperata voglia di divertimento a tutti i costi, di
chi vuole sfuggire alla solitudine (Risate
di gioia
, 1960), e all’amarezza della propria inettitudine (Amici miei, 1975). L’ipocrisia delle
famiglie italiane, che si riuniscono a Natale solo per rispettare le tradizioni
(Parenti serpenti, 1992) o che sono in
perenne conflitto (Panni sporchi,
1999).


A ben guardare, questa tipologia di italiota affonda le radici nel passato, era cioè già presente prima
ancora che l’Italia venisse unita, prima di divenire tratto dominante e
caratterizzante della stessa nazione italiana. Basti pensare alla scalcinata e
buffa compagnia di freak medievali de L’Armata
Brancaleone
(1966) o a quello che è l’antesignano dell’italiano moderno, Il Marchese Del Grillo (1981), il nobile
papalino di inizio Ottocento, campione di burle, che si divide tra il palazzo
di famiglia e le bettole, tra un’udienza pontificia e le frequentazioni con gli
atei “franzosi”, tra una guardia a Castel Sant’Angelo e le belle popolane.
Rompendo con disinteresse una poltrona del Seicento per bruciarla nel camino,
afferma con menefreghismo: “Io se potessi
sfascerei tutto! Vaffanculo il Cinquecento, il Seicento, il Settecento! Come
dite voi francesi? Merde a tout le monde!
”.

Questa strafottenza del vivere è forse per Monicelli la
peculiarità che più caratterizza gli italiani e ha la sua massima espressione
nelle descrizioni del Capodanno, il momento per eccellenza dello svago a tutti
i costi. Come quello di Risate di gioia,
in cui le due vecchie comparse del cinema Antonio (Totò) e Tortorella (Anna
Magnani) si ritrovano soli e disperati, mentre tutta la città è in preda ai
folli festeggiamenti a cui nessuno intende rinunciare. Trent’anni dopo non vi
rinunceranno neanche quei terribili figli della provincia ipocrita e perbenista
di Parenti serpenti, che mangiano e
ballano spensierati in una balera kitsch mentre i genitori muoiono da soli in casa
per loro volere. I personaggi monicelliani sono dunque non-eroi, cialtroni sconfitti
dalla vita, persone comuni che non intendono rassegnarsi a un’esistenza grama.
Persino quando ritrovano la dignità in uno scatto d’orgoglio, decidendo di
sacrificare la propria vita, vengono beffardamente ritenuti dei vigliacchi da
coloro i quali devono a loro la salvezza (La
Grande Guerra
, 1959). Forse soltanto le donne, sembra dire il maestro, se unite,
possono riscattare gli sbagli e le incapacità degli uomini (Speriamo che sia femmina, 1986).


Celebre è l’alterco in una ormai storica trasmissione
televisiva del 1977 con un giovane regista, reduce dal sorprendente successo
della sua opera prima girata in Super8, Io
sono un autarchico
, che, in maniera molto arrogante e irrispettosa, gli rinfaccia
di rappresentare il sistema degli studios e di essere l’esponente di punta di
quella commedia all’italiana razzista e diretta solo allo stomaco dello
spettatore. Il grande regista ribatte serafico al giovane di essere nient’altro
che un proprio epigono, e di fotografare la società contemporanea al pari di
come aveva fatto lui negli anni precedenti. La storia, come spesso capitava,
gli ha dato ragione: Nanni Moretti
ha raccontato l’Italia e gli italiani degli ultimi trent’anni in maniera non
dissimile da come aveva fatto il maestro viareggino.

Anche negli ultimi tempi, intervistato, Monicelli continuava
a ripetere quanto fosse schifato dalla volgarità dell’Italia contemporanea,
quanto vuoto trovasse nella società e nel cinema di oggi. Riteneva stupidi gli
italiani perché continuano a votare Berlusconi invece di prenderlo a calci nel
sedere. E lo diceva senza peli sulla lingua, senza giri di parole. Seguitava cioè
a fare a voce quel che aveva fatto in 75 anni di carriera (!) con la macchina
da presa. Fino all’ultimo. La battaglia più recente è stata contro i tagli alla
cultura e al mondo del cinema da parte del governo. Malato, ricoverato in ospedale,
ha scelto da solo il momento di accomiatarsi dalla vita. Diceva: “La vita non è sempre degna di essere
vissuta, se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena
”. Al
contrario di molti suoi personaggi, Mario Monicelli è stato coerente fino all’ultimo.
Chapeau!

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Visualizza commenti

  • -"La vita non è sempre degna di essere vissuta, se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena”.-

    beh in effetti passare la vita incazzati a filmare le pochezze del cosiddetto 'uomo comune' non deve essere stato proprio il massimo, d'altra parte la dignità è un concetto molto labile e ognuno ha la non vita che si merita.

  • In italia siamo bravissimi a incensare i grandi maestri che hanno più di 80 anni e che sono così saggi da non non voler neanche essere incensati.

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