Nell’Italia dell’imbecillità corporativa la mamma sempre incinta è quella dell’
art addicted tutto d’un p(r)ezzo. Costui, nel disquisire delle cose dell’arte, mal sopporta l’approccio comparatistico, l’eterodossia dei cavoli da servire (debitamente) a merenda, il paradigma del “vedo doppio” come salutare
forma mentis e generosa -e proficua-
praxis intellettuale. È lui l’attore non protagonista di mille dopocena: si provi ad affermare “
Rino Gaetano sta alla canzone italiana come Pino Pascali alla storia dell’arte contemporanea (e viceversa)”, e nove volte su dieci l’interlocutore di turno replicherà con un silenzio imbarazzante e pure un po’ peloso. “
E pensare”, si vorrebbe l’occasione di ribattere, “
che è stato Gilles Deleuze, mica Benedetto Croce, a chiedersi ‘il pittore ha forse meno ritornelli del musicista? Vi sono meno ritornelli in Cézanne o in Klee che in Mozart, Schumann o Debussy?’”. Ma niente: il sedicente specialista non smetterà di tacere. Alla faccia dell’osannata
contaminazione e di un minimo sindacale di
ésprit de société.
Eppure una provocazione del genere è già un assist. Perché Rino e Pino in posa proprio non ce li metti, nemmeno singolarmente. La storia ha già laureato questi due inclassificabili con il più sensazionale dei riconoscimenti: mantenersi autori di difficile collocazione e tuttavia risultare tra i campioni indiscussi della categoria cui si è ascrivibili soltanto
sui generis (nella fattispecie: il cantautorato anni ’70 e l’Arte Povera). Il che è prerogativa dei soli artisti di razza. Si aggiunga che l’Italia delle “caste” non si arrende facilmente alla grandezza dei suoi battitori liberi: agli ex snobbati viene consentito di far breccia nei salotti solo quando l’abbraccio finalmente si compie, in genere una ventina d’anni dopo morti (la consacrazione di
Pino Pascali, checché se ne dica, risale agli anni ’80).
Si consideri poi che
Rino Gaetano, “figlio unico” della musica leggera italiana, outsider di turno appena asceso al pantheon, condivide con Pascali più o meno la stessa faccia, le stesse origini (Crotone e Bari, le due città natali, si affacciano entrambe su un mare già “greco”), un comune vissuto da trapiantati a Roma e, come se non bastasse, un incontro con la “comare secca” avvenuto nello stesso momento e con identiche modalità (Rino perde la vita in un tragico incidente stradale nel 1981, a soli trentatre anni; Pino idem, appena trentunenne nel ‘68).
Ma i due ufo Rino e Pino si somigliano anche a prescindere dai dati macroscopici delle loro mozze biografie. Nel lasso di tempo che intercorre tra i due decessi il fondamentale
Lezioni americane di Italo Calvino non ha ancora visto la luce e, almeno in Italia, le nicciane Leggerezza, Rapidità e Molteplicità sono virtù che non si portano. Al Folkstudio, glorioso crocevia in Trastevere di nostrani
maître-à-penser con chitarra (i “
Guccì Vecchiò, Guccì Vecchiò Vendì Dallà” che fanno capolino nel blues
Standard), Rino Gaetano ha un’immagine troppo dadaista, agile e petroliniana per stare nella foto di gruppo. Il suo profilo è quello del “
caba-rocker”, come scrive il biografo Alfredo Del Curatolo [1]. Uomo del popolo stralunato ed estemporaneo,
hobo americano in versione emigrante calabrese, Gaetano finisce per apparire -letteralmente- un “
caso isolato” [2]. È un giudizio da non sottovalutare. Tra le novità della sua proposta ci sono il guizzo linguistico spesso formidabile e un impianto paratattico delle liriche che, a parere di chi scrive, si ritrova in coeve esperienze proto-punk d’oltreoceano (i primi Talking Heads di uno spiritato David Byrne) ed è comunque in netto anticipo sul celebrato Franco Battiato di
Patriots e
La voce del padrone. Brani in forma di palinsesto come
A.D. 4000 d.C. ,
Mio fratello è figlio unico,
Glu glu,
A Kathmandu, mirabilmente in bilico tra introspezione e sberleffo, sono esemplari come
Bandiera bianca di una frammentazione della visione che sarà dell’opera d’arte nell’era dello zapping. In proposito il critico Gino Castaldo scrive che Rino “
andò tanto avanti da arrivare vent’anni dopo” [3]. Vent’anni dopo -bisognerebbe aggiungere-
qui da noi.
Anche Pino Pascali è uno che si muove veloce, un mercuriale di quelli imprendibili, un serpente obbligato dopo un po’ a cambiar pelle (“
Io sono come un serpente / Ogni anno cambio pelle. / La mia pelle non la butto / Ma con essa faccio un tutto. / Quel che sono di recente / Già da tempo mi repelle” [4]). Incapace di fare “
differenze di qualità, di sincerità, di felicità espressiva tra un tipo di lavoro e un altro”[5] , riesce poco e male ad atteggiarsi ad artista con la maiuscola (lavora per la pubblicità ed è scenografo per la tv delle gemelle Kessler). Ma c’è di più: al cuore della sua produzione sta l’intuizione squisitamente verbale. Come Rino appassionato di motori e parole, Pino viene soprannominato
Dettofatto [6] per la velocità impressionante -e, appunto, la felicità- con cui cavalca un processo creativo spesso e volentieri di matrice discorsiva, per la foga incontenibile con cui trasforma tutto ciò che gli capita a tiro, in primis le parole, in cose. Curiosando tra i suoi appunti ci si imbatte qua e là nell’analisi cui vengono sottoposte locuzioni come “
coda di paglia” o “
pelo nell’acqua” (la celeberrima installazione ambientale poi intitolata
Il mare), modi di dire suscettibili di essere ribaltati in apparizioni iperboliche per mera dislocazione linguistica. Nell’arte di Pino Pascali il detto viene/diventa “fatto” –
e come sostantivo
e come participio passato. E, per giunta, a prescindere dall’uditorio. L’italica intellighenzia sta a guardare ma, al solito, presa in contropiede dall’artista che agisce da paroliere e realizza “finte sculture” [7], si dimostra per paradosso incapace di maneggiare un fenomeno ad alto tasso di prensilità. Morale della favola: Pascali passa per un “peso piuma”, per un artista pop nel senso peggiore del termine, per un fiore fragile delle mode del momento al cospetto di tanti telamoni e pochissimi titani. L’attenzione che circonda la sua opera si dissolve presto.
Ancora nel 1983, a quindici anni dalla sua scomparsa, Alberto Boatto scrive di Pino Pascali: “
Non ne scorgo traccia. È molto raro incontrare un’opera dell’artista in una mostra o in una vendita all’asta” [8]. Tutto ciò si ripete
mutatis mutandis proprio con Gaetano, inatteso “cantabarista” (!) con tanto di gilet e cilindro da Gastone, poeta-performer così off da apparire soltanto out. Stessa pasta d’uomo, stessa vicenda critica ed esistenziale.
Ecco. Non sarebbe male lavorare a un film documentario -una mostra no, sarebbe troppo- in cui l’opera dell’uno venisse presentata attraverso i testi e le musiche dell’altro (e, appunto, viceversa). Rino e Pino come due “classici”, due artisti grandi anche
perché portatili. Limpidi e atavici, azzurri e fulminei, “leggeri” ma quanto… profondi. Avremmo il ritratto incrociato/multimediale di due presocratici del nostro tempo, due
refusés degli “anni di piombo” sopravvissuti eccome, e destinati a ingigantire ogni anno che passa. Il plot entro cui focalizzare il montaggio verrebbe rintracciato nel comune concept idrico, nell’ossessione per il tremolare della marina che innerva in profondità il lavoro di entrambi. Niente di più semplice, di più “naturale”. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di distogliere l’obiettivo. Il Rino “marino” e sottilmente conceptual per il quale è blu anche l’asfalto (
A Khatmandu), che canta senza tregua di velieri, lampare, ma anche di misteriosissimi “
fascicoli sul mare” (
Visto che mi vuoi lasciare) e di un “
sale mattutino […] che a pensarci ti vien voglia di pensare” (
I tuoi occhi sono pieni di sale), si rivelerebbe il miglior accompagnamento possibile per indugiare sull’acqua a riquadri (
32mq di mare circa,
Fiume con foce tripla) installata da Pascali in più d’un’occasione. Senza contare che i due incarnano l’ineffabile
genius loci autenticamente mediterraneo come pochissimi altri nella seconda metà del XX secolo. Anzi. Da questo punto di vista occorre prestare attenzione al più sottile dei controsensi. Al fatto che a incoronare la leggerezza di Rino Gaetano abbia provveduto proprio questa nostra epoca glocal. Così sazia di vitamine, così bisognosa di proteine.
[1] Cfr. Alfredo Del Curatolo, Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano, p. 39, Selene, Milano 2004.
[2] A definirlo un “caso isolato” è il musicologo Dario Salvatori, autore del volume Folkstudio Story, Studio Forma, Torino 1981. Cfr. Alfredo Del Curatolo, cit., p. 26.
[3] “Rino, che andò tanto avanti da arrivare vent’anni dopo” è il titolo di un articolo a firma Gino Castaldo pubblicato sul Venerdì di “Repubblica” nell’agosto 2003.
[4] Poesia di Pino Pascali pubblicata in “D’Ars”, maggio 1969. Poi in Anna D’Elia (a cura di), Pino Pascali, Laterza, Roma-Bari 1983.
[5] Sandra Pinto, Pino Pascali nella storia dell’arte italiana dal 1956 ad oggi, in Pino Pascali. Il mare ecc., cat. mostra Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Electa, Milano 2005.
[6] Palma Bucarelli, Pino Pascali, in Catalogo della XXXIV Esposizione Internazionale d’arti visive, Venezia-Firenze 1968, p. 34.
[7] “Io fingo di fare delle sculture, ma che non diventino quelle sculture che fingono di essere: voglio che diventino una cosa leggera, che siano quello che sono, il che non spiega proprio niente”. Dichiarazione di Pino Pascali in Carla Lonzi, Autoritratto, De Donato, Bari 1969, p. 355.
[8] Alberto Boatto, Pascali oggi, in Anna D’Elia, cit., p. 36.