Il MuFoCo compie dieci anni. E la dote che porta per questo compleanno non è fatta solo di fotografie, sebbene ammontino a due milioni di scatti, cui si aggiungono 31 fondi fotografici. Ci sono anche progetti per valorizzare il territorio, un archivio e una biblioteca specializzata che vanta 20mila volumi. Eppure il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello, tanto amato e rispettato non solo dagli addetti ai lavori, in un momento così favorevole per questo linguaggio artistico, sembra ancora arrancare senza consolidarsi a livello nazionale. Partiamo da qui per la conversazione con Roberta Valtorta
Come spiega lo scarso radicamento del MuFoCo?
«È un percorso difficile. Nella cultura istituzionale italiana la fotografia, e specialmente la fotografia contemporanea, non ha ancora una sua precisa collocazione. È mancato finora un progetto per un museo nazionale, nonostante la fotografia sia bene culturale per le leggi dello stato italiano dal 1999. È un problema profondo, che ha le sue radici nella tardiva unificazione del Paese e conseguente nascita di uno stato borghese-industriale, e la fotografia è un’arte industriale. Ha pesato negativamente anche la struttura del sistema educativo italiano, che ha a lungo tenuti separati l’ambito letterario-artistico dall’ambito scientifico-tecnico, e la fotografia è un’arte basata sulla tecnica».
Nel nuovo millennio che significa per lei per fotografia contemporanea e come si differenzia da quella tradizionale del Novecento?
«Al di là dell’evoluzione tecnologica, che ci ha portati dall’analogico al digitale, il vero cambiamento sta nel passaggio da un sistema basato su progettazione, produzione e fruizione a un sistema totalmente nuovo in cui progettazione, produzione, diffusione, condivisione e partecipazione sono intimamente collegati».
Al vernissage della mostra “2004-2014 Opere e progetti del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo”, ospitata alla Triennale di Milano e che lei ha curato, erano presenti molti amici e fotografi che hanno esposto un‘opera, oltre al sindaco di Cinisello. Ma all’appello mancavano l’assessore alla cultura di Milano o altri politici per sostenere la causa del museo in attesa di un riconoscimento di interesse nazionale. Perché secondo lei?
«Perché, fondamentalmente, la fotografia non è stata ancora capita dalla cultura ufficiale italiana e dunque dalle istituzioni. Perché suona ancora strana l’espressione “museo di fotografia”, mentre sono chiare le parole: mostra di fotografia, fiera, o, anche, antico archivio di documenti fotografici».
Se ripensa agli esordi del museo, alle prese con la costituzione di una collezione di fotografie oggi dal valore inestimabile, cosa trova di cambiato e com’è cambiato l’approccio critico e del pubblico nei confronti della fotografia?
«Devo dire che c’è più conoscenza, soprattutto tra i giovani, e comunque la fotografia piace molto più di prima. Il lavoro critico è molto migliorato e si è diversificato. È anche aumentato il collezionismo privato. Il punto debole restano le istituzioni, sia in campo museale sia universitario».
Cosa pensa della donazione di Berengo Gardin di 2800 diapositive del suo straordinario archivio alle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco del Comune di Milano. Perché secondo lei, nonostante siate amici, non ha pensato al “suo” museo?
«Non so che cosa dire al proposito e non vedo il problema. Credo che ognuno sia libero di fare donazioni a chi desidera. Berengo Gardin è comunque presente nelle nostre collezioni con un buon numero di fotografie, in parte derivate da committenze, in piccola parte donate».
Il Museo di Cinisello da chi viene finanziato e perché il Comune di Milano se ne “lava le mani”? Siamo ancora in un clima di “faide” tra comuni o di competizioni che non giovano alla cultura e neppure all’immagine dell’Italia?
«Il Museo è stato fondato e viene sostenuto dalla Provincia di Milano e dal Comune di Cinisello Balsamo, in base a un progetto nato nella seconda metà degli anni Novanta. Il Comune di Milano non è stato mai partecipe di questo progetto. Non si tratta di faide, sono percorsi progettuali e politici diversi, tra loro staccati. Vedremo quali saranno gli sviluppo con la nascita della Città Metropolitana».
Non avete mai pensato di far pagare un biglietto d’ingresso al costo simbolico di una birra, così resta accessibile ai giovani? Oppure pensa che con l’entrata a pagamento perderebbe una cospicua percentuale di visitatori abituali?
«Questo è un tema delicato. Abbiamo finora valutato che poiché lo spazio espositivo limitato di cui dispone il Museo non offre moltissimo ai visitatori non era il caso di applicare un biglietto d’ingresso. Sono però a pagamento le visite guidate, i corsi di fotografia, i progetti educativi speciali».
Quando è nata e quali sono gli obiettivi dell’Associazione degli Amici del Museo di Cinisello?
«È nata nel 2010 e ha come scopo sostenere il Museo e le sue attività. Diverse nostre iniziative sono state sostenute dagli Amici, ai quali siamo veramente molto grati».
Quanti visitatori registrate all’anno e che tipo di pubblico frequenta il museo, incastonato nella Villa Ghirlanda poco conosciuta e dotata di un giardino straordinario?
«Data la collocazione decentrata del museo, i visitatori non sono molti. Siamo sui 15mila all’anno, ai quali dobbiamo aggiungere i molti studenti di ogni grado di scuole. Il luogo è molto gradevole, anche se non immediatamente raggiungibile, ma probabilmente anche il complesso di Villa Ghirlanda avrebbe bisogno di essere più conosciuto e lanciato».
Veniamo alla mostra di scena alla Triennale di Milano, quante opere e progetti sono esposti e quali sono stati i criteri di selezione e di allestimento?
«Le opere sono circa 110, i progetti 15. Ho scelto tra circa un milione di nuove immagini acquisite nel periodo 2004-2014. Non facile. Ho scelto gli autori più importanti, tra le opere non ancora mostrate in altre mostre, ma ho anche cercato di legarle tra loro in piccoli racconti costruendo un filo conduttore che va dalla città alla natura, al corpo umano, alla società. Il progetto di allestimento, che si deve a Matteo Balduzzi, vede le opere al centro dello spazio espositivo, come a costituire una spina dorsale a zig zag, e i progetti alle pareti laterali, in un dialogo continuo tra opere e progetti».
Dagli anni ’80 ad oggi si può parlare di una “scuola” o di una corrente di fotografia milanese, che si distingue per codici visivi riconoscibili. Se sì, quali?
«Direi di no. A Milano abbiamo avuto e abbiamo personalità molto importanti come Monti, Mulas, Berengo Gardin, Scianna, Cerati, Lucas, Basilico, che purtroppo abbiamo perso poco più di un anno fa, De Biasi e Nicolini, che anche abbiamo perso da poco, Radino, Ballo Charmet, Castella, Francesco Jodice, e poi gli altri più giovani, ma non parlerei di una scuola milanese. Parlerei invece di una notevole influenza di Basilico sulla progettualità delle generazioni più giovani. Basilico è l’artista che maggiormente ha lasciato il segno sulla fotografia milanese».
Questa importante mostra sarà itinerante per far conoscere il patrimonio del Museo di Fotografia di Cinisello anche all’estero, magari ad Arles, oppure alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi?
«Al momento non è previsto nulla. Sentirò alcuni colleghi europei per verificare se vi è un interesse verso una mostra che però ha un taglio molto “istituzionale”».
Quali sono i progetti condivisi con i cittadini di Cinisello che le hanno dato più soddisfazione e perché?
«Primo tra tutti “Salviamo la luna” di Jochen Gerz, e poi anche il fotoromanzo “Ricordami per sempre”, con Marco Signorini e Giulio Mozzi».
Ma secondo lei, nel mare magnum della nostra cultura digitale, dove tutto è cambiato molto rapidamente (fotografia inclusa) e la fruizione delle immagini avviene per lo più su supporti tecnologici, ha ancora un senso un museo?
«Finché gli uomini avranno un corpo fisico avrà senso conservare oggetti fisici. Tutto va verso la virtualizzazione, certamente, ma ha ancora un significato conservare e tutelare ciò che di meglio gli artisti hanno prodotto e producono. E poi oggi un museo non si occupa solo di conservazione, ma anche e moltissimo di produzione insieme agli artisti, di condivisione con i cittadini, di comunicazione web. Che è ciò che cerchiamo di fare».
Quali sono i vostri obiettivi futuri e cosa prevedete per l’Expo del 2015?
«Sul piano istituzionale lavoriamo per una sede espositiva a Milano e per un riconoscimento nazionale delle nostre collezioni. Abbiamo il progetto “Vetrinetta” visibile anche nella mostra in corso, stiamo cercando di capire come essere presenti nel periodo Expo, ma lo scenario è ancora così mutevole, così vari i progetti in cui siamo coinvolti ancora in modo non chiaro e definitivo che preferisco non anticipare nulla».