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SEMPRE PIÙ IN ALTO

di - 30 Novembre 2010
Sei il più
giovane curatore italiano che sale così in alto a New York. Come ti senti e che
significato ha per te questa promozione a direttore associato e direttore delle
mostre del New Museum?

Al momento in realtà la promozione più che
altro mi mette un poco di ansia perché la programmazione è tutta da inventare,
già a partire dalla prossima estate. Quindi le possibilità sono davvero
infinite.

E a cosa stai
pensando?

Invece di pensare a mostre o artisti sto
pensando a formati, serie e situazioni; insomma, a impostare l’ossatura sulla
quale poi innestare le mostre vere e proprie. Di sicuro mi piacerebbe che il
New Museum trovasse un equilibrio tra il mostrare il lavoro dei grandi artisti
di oggi e di domani accanto a opere e lavori di artisti del passato
ingiustamente dimenticati. Vorrei che fosse un luogo in cui il New, il nuovo del suo nome, si
arricchisse di diverse sfumature e tonalità.

Il New Museum
sta cambiando le sorti del LES – Lower East Side, da quartiere degradato
attorno alla Bowery a nuova zona d’arte. Che ruolo vorrai dare al museo? Cos’hai
in mente di cambiare, innovare e continuare?

Il New Museum si inserisce in un
cambiamento del Lower East Side che coinvolge molti altri attori e
protagonisti, dalle gallerie alle boutique, passando per ristoranti e centri
commerciali neo-yuppie. In realtà credo che, da un punto di vista urbanistico,
il ruolo più importante del New Museum sia proprio quello di mantenere vivo il
tessuto culturale del LES: quando i quartieri si trasformano a NY, di solito
diventano semplicemente centri commerciali a cielo aperto (vedi Soho o Nolita).
Il New Museum, invece, insieme alle gallerie che gli sono cresciute attorno, ha
la responsabilità di mantenere alto il tasso di cultura e di arte in un
quartiere la cui storia è strettamente legata a quella dell’arte contemporanea.
Dal settimo piano del museo basta guardarsi attorno per vedere gli edifici in
cui avevano il proprio studio Jasper Johns e Robert Rauschenberg, William
Burroughs o Lynda Benglis, Basquiat e tanti altri.


La Fondazione
Trussardi è stata per te un importante trampolino. Come continuerà la tua collaborazione
con la fondazione e come reputi il rapporto fra arte e moda?

Naturalmente continuerò a lavorare per la
fondazione come ho fatto in questi anni. La Fondazione Trussardi è davvero una
realtà unica per flessibilità e professionalità: le nostre mostre sono sempre
grandi sforzi logistici e produttivi che credo si possano realizzare solo con
un team come quello della fondazione e con un presidente come Beatrice
Trussardi, che è aperta a produrre e sostenere i progetti più inusuali. Quindi
davvero non penserei mai di lasciare la fondazione, perché è un laboratorio
straordinario, ormai riconosciuto e apprezzato da artisti e professionisti in
tutto il mondo. In realtà da gennaio prossimo partono i festeggiamenti del centenario
del marchio Trussardi e la fondazione giocherà un ruolo importante in una
grande mostra a Firenze, ospitata da Pitti Immagine.

Quanto al
rapporto arte/moda?

Non posso che parlarne bene, perché grazie
alle risorse della moda abbiamo realizzato mostre e progetti assai complessi. Il
problema non è la relazione arte/moda di per sé: tutto dipende da quale idea di
mecenatismo le case di moda vogliono intraprendere. Beatrice Trussardi e il
marchio Trussardi non credono nelle contaminazioni anni ‘80, con gli artisti a
fare gli stilisti, forse proprio perché già le praticavano allora. Trussardi è
interessato invece a un’idea di eccellenza e cultura: si tratta di sostenere
l’arte migliore con le mostre più ambiziose e anche le più strane, nella
convinzione che un marchio di moda importante abbia la responsabilità e
l’intelligenza di sostenere l’eccellenza e la qualità in ogni campo, nella moda
come nell’arte, nel design o, più di recente, nella cucina di avanguardia.

Le città
italiane vivono momenti difficili. Venezia, e non solo, è invasa dalle
gigantografie pubblicitarie che stanno spaccando l’Italia della cultura fra
realisti (servono soldi) e gli idealisti (la bellezza non si tocca). Dal tuo
osservatorio newyorchese come giudichi la questione?

Forse NY è il luogo più sbagliato per
riflettere su questi argomenti perché Times Square ha innalzato la pubblicità
al livello di fenomeno sociale e culturale, facendone un elemento fondamentale
della nostra esperienza urbana: in fondo la Pop Art discende da Times Square,
dal bisogno di imparare a digerire proprio quelle immagini così presenti e
invadenti. Io poi non sono un nostalgico e credo si possano e si debbano
trovare modi creativi e dignitosi per convivere anche con gli esempi più
eccessivi della nostra cultura visiva. L’antidoto peraltro è molto semplice:
alle gigantografie pubblicitarie bisogna rispondere con l’arte, abituando il
pubblico a conoscere e vivere con immagini altrettanto aggressive e frontali,
ma assai più complesse e stratificate.

È una questione
di ruolo…

L’arte contemporanea è il linguaggio che
meglio può insegnarci a interpretare e rifiutare la semplicità e la
mono-dimensionalità del linguaggio pubblicitario. È proprio per questo che non
c’è cosa che mi faccia più rabbia di chi è pronto a parlar male di arte
contemporanea, e a rifiutare magari progetti anche provocatori, salvo poi non
dir nulla rispetto alle migliaia di immagini che ogni giorno rincitrulliscono
gli abitanti delle nostre città. Per fare ancora l’esempio di Cattelan, com’è
possibile che un poster con un’opera d’arte come il suo Hitler non possa essere
affisso a Milano, quando ovunque ti giri ci sono gigantografie di minorenni
anoressiche, o comunque postumane, che simulano amplessi e scambiano sguardi
infuocati con modelli dal fisico da calciatore dopato? Perché la deformità al Photoshop
di un corpo femminile in acrobatiche pose con le quali esibire mutanda,
inguine, coscia, borsa, braccialetto e scarpa col tacco, sono più accettabili
della fotografia di una scultura miniaturizzata in ginocchio e a mani giunte?
La religione qui non c’entra niente in realtà, perché allo stesso modo
cristiani, musulmani ed ebrei dovrebbero condividere il rispetto per la
donna…

A Torino
Bellini e Merz stanno impostando il Castello di Rivoli come il PS1 di New York:
più giovane, aperto al pubblico, friendly e ricco di eventi. Pensi che New York
sia ancora il modello da seguire? La città resterà il centro mondiale dell’arte
contemporanea?

New York è ancora il centro del mercato
dell’arte: un signore di nome Philippe Segalot ha appena messo all’asta arte
per 80 milioni di dollari, che non è neanche una cifra record, ma che equivale
al budget che il Comune di NY destina alla cultura… Questo dà subito un’idea
dei pesi e delle misure che si mettono in campo in quella città. Detto questo,
è ormai chiaro che il mondo dell’arte è assai più internazionale e complesso.
Hong Kong è già destinata a diventare la Basilea d’Oriente, con una fiera in
netta crescita. L’Asia è sempre più presente e – per restare nell’ambito del
mercato – Gagosian ha già un ufficio a Hong Kong e progetta di aprirvi uno
spazio.Sono di ritorno da Londra e l’aspetto
sempre più sorprendente è vedere come ormai le città più importanti al mondo
abbiano capito che il futuro è multiculturale, mentre da noi siamo ancora a
parlare di regioni e campanili.

Pensi che la
produzione e la fruizione dell’arte di domani si avvarrà di nuovi strumenti,
spazi, e pratiche curatoriali?

Non sono solito fare profezie. Certo è che
i collettivi e i gruppi ci sono sempre stati. Forse ora hanno una nuova forza
perché le informazioni sono semplicemente troppe per essere gestite da una sola
persona.

In Italia si
fanno i musei e poi non ci sono i soldi per mandarli avanti…

In Italia non esiste la tradizione dei
trustee e delle donazioni. Ci sono naturalmente ragioni fiscali e anche
storiche, ma forse quello è l’elemento sul quale c’è molto da fare. Non
dimentichiamoci che tanti musei americani operano ed esistono grazie a ingenti
donazioni di privati. Penso che a noi ancora manchi la cognizione dell’arte
come bene comune.

Quali
differenze sostanziali intravedi nel rapporto fra la politica e l’arte presenti
nelle due realtà, statunitense e italiana?

È un discorso assai lungo e in gran parte
noioso. Ma ti posso dire che a NY non ho mai incontrato un politico o un
funzionario, se non quando sono venuti alle inaugurazioni o a visitare le
mostre. La città di NY ha donato circa 10 milioni di dollari al New Museum come
parte del pacchetto-stimolo per il rilancio di Lower Manhattan. In cambio hanno
solo preteso che facessimo il nostro lavoro bene, anzi al meglio: ovvero,
riconosciuta la professionalità di un’istituzione, la si sostiene, magari si fa
anche un bel contratto perché si rispettino tempi e tutte le norme di
sicurezza, ma nessuno è venuto a chiedere nulla, neanche di mettere il nome del
sindaco Bloomberg sull’invito. Anzi, Bloomberg è venuto pure a ringraziare il
museo…

Esporrai arte
italiana contemporanea al New Museum?

Certo, anche se non mi piace scegliere gli
artisti in base alla nazionalità. Dico sempre che non chiedo mai il passaporto
a un artista prima di decidere di esporre la sua opera. Al New Museum tra gli
italiani sono già passati Micol Assael, Alighiero Boetti, Maurizio Cattelan,
Roberto Cuoghi, Diego Perrone, e di sicuro ne passeranno tanti altri.
L’importante è che le loro opere non siano semplicemente italiane e siano
all’altezza di un confronto internazionale.


Con Maurizio
Cattelan e Ali Subotnick hai fatto molte cose: curato la Biennale di Berlino
nel 2006, creato la rivista Charley e
fondato la Wrong Gallery, ora alla Tate Modern di Londra come opera d’arte e
riprodotta come multiplo in vendita nella gallerie di New York. Quanto c’è in
te di “artista” e cosa pensi del rapporto tra il curatore e l’artista?

Non c’è niente di artista in me,
anche se forse sono un poco insofferente alla burocrazia e alle regole non
necessarie. Il rapporto artista/curatore poi è un argomento che richiederebbe
un’intera intervista a parte. A me piace pensare che il curatore debba
soprattutto dedicarsi all’opera, non all’artista: l’artista è il tramite per
raggiungere l’opera, ed è su quella che si deve concentrare l’attenzione del
curatore, dell’istituzione e del pubblico. Di solito gli artisti apprezzano
quando avvertono questa tensione all’opera, alla sua realizzazione e
presentazione.

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Visualizza commenti

  • per m.e.g. belli e dannati???? belli forse, dannati no di certo
    privi di qualsiasi retrogusto intellettuale...di sola plasticosa superficie....ancora e sempre chissenefregaaaa!!!!!!!

  • morsiani come zero: fantastico! stessa reazione...
    morsiani ha tolto il blog! (coda di paglia?)

  • cosa??? se lucarossi sarebbe Morsiani, cosa critica a fare l'ikea, fa le stese robe degli altri! oppure ho capito male?
    boh, com ormai siamo arrivati ad un sistema del piffero

  • Uscire dal '900 significa smettere con il gusto avanguardistco di giudicare il valore di un lavoro sulla base delle similitudini stilistche con altri artisti. Bisogna smettere di confrontare un lavoro artistico con altre opere, e' necessario uscire il più possibile dai giochi linguistici (stilistici) e confrontarsi solo con il mondo reale. Per questo ne' BURGER ne' MORSIANI hanno qualcosa da dirci.

  • Caro Marco,Rossi e molti altri,guardando gli infiniti commenti vien da dire che hanno tutti ragione,tutti dicono quanto basta ma mai tutto,vuoi perchè si è preparati su qualcosa ma non su altro,si è a conoscenza di quello e basta o si è potenti arroganti e disonesti e si gioca con l'ignoranza di collezionisti,curatori,critici e artisti.Fino a non molto tempo fa il solo citare il lavoro di altri era quasi inammissibile(stupidamente),oggi copiare di sana pianta e arrogarsi il diritto del primo arrivato è la norma(assurdamente).
    Vero è che la postproduzione globale del copia e incolla fa sentire tutti un pò più creativi,ma basterebbe riconoscerlo, per non generare così presuntuosi equivoci e guardare un pò oltre Duchamp,perchè dopo di lui la lista è lunga e le memorie troppo corte.Non dico ad un giovane artista e curatore di conoscere Paul Thek,Ed Paschk,Leon Golub,Pino Pascali ed altri,ma almeno gente come Robert Gober,Matthieu Laurette,Liam Gillick,Pierre Joseph e molti altri si. Quindi ok leggere Nicolas Burriaud,ma farlo in modo critico e non per ricavarne la scusa per non gurdarsi intorno.Prima di concentrarsi troppo presto su noi stessi, diamo un occhiata in giro.Purtroppo l'arte vive di troppe poche cose e troppe poche persone e sta diventando ignorante ed obsoleta,il mondo fuori dall'arte è spesso più avanti e migliore.

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