Per Simone Verde due anni (più qualche mese) da Direttore del Complesso Monumentale della Pilotta sono passati. Anzi, volati, come succede quando si hanno tantissime cose da fare, risolvere, oltrepassare. Entrato in carica operativamente a maggio 2017 in piena riforma Franceschini, Simone Verde prosegue a schiena dritta. Nato sotto il segno della Vergine, in quanto a rigore, praticità e determinazione non smentisce il suo profilo astrale e guarda al sodo. Con un occhio al progetto che gli è valso la nomina, c’è ancora molto da fare per rilanciare il concentrato di tesori ducali nel cuore di Parma e ultimare il percorso di ridefinizione dell’identità culturale del Complesso museale da lui avviato. Ergo, tiene rimboccate le maniche e resta concentratissimo su obiettivi e desideri di cui ci parla volentieri, snocciolando coordinate per far luce sul “Verde pensiero”.
Con il suo arrivo i cinque istituti della Pilotta (Teatro Farnese, Biblioteca Palatina, Galleria Nazionale, Museo Bodoniano e Museo Archeologico) sono stati riaccorpati in un’unica istituzione, riproponendo lo status di polo culturale che il Complesso ha già avuto in passato. Tra le opere di valorizzazione realizzate ad oggi in quest’ottica, spicca il riallestimento dell’Ala Nord della Galleria Nazionale nonché il restauro e la ricollocazione della cornice originale disegnata da Petitot per il dipinto La morte di Virginia di Doyen. Qual è il filo rosso che ha seguito in questi lunghi mesi di lavoro?
«Per l’Ala Nord della Galleria Nazionale è stato concepito un progetto di riscrittura museologica e museografica della sezione di opere del Seicento e del Settecento, mentre l’intervento sull’opera del Doyen ha un valore anche simbolico perché, catalogato con il numero 1 delle Collezioni, rappresenta il tassello iniziale della vicenda collezionistica dei Borbone a Parma. Per quanto riguarda il filo conduttore non sto facendo altro che portare avanti il progetto per il quale sono stato scelto. Per concretizzare il concept e creare un’unica istituzione accorpando le singole entità, non ho previsto nessuna invenzione da zero, bensì un ritorno alle origini museologiche della Pilotta».
Che, infatti, non prevedevano una frammentazione, bensì un concetto unitario.
«Sì. Questo Complesso è stato abitato e modificato nei secoli dai Farnese, dai Borbone, da Maria Luigia d’Asburgo, quindi ha subito degli interventi molto importanti e incisivi dal punto di vista della riconcettualizzazione, sia del contenitore sia del contenuto, ed è stato protagonista da un punto di vista della storia del collezionismo di una delle pagine più interessanti, per quanto periferiche, del collezionismo europeo. Nel corso del tempo è avvenuta una stratificazione di Collezioni che è perdurata fino alla fine dell’Ottocento. La logica di quel collezionismo era di tipo teocratico. Serviva a dare legittimità a un ducato che aveva molta ragione di esistere, ma poca legittimità politica. Le Collezioni sono state raccolte in funzione di un’idea di unità del sapere sotto l’ombrello dell’Illuminismo. Poi, nell’Ottocento, la logica unitaria delle Collezioni è stata completamente negata dalla tassonomia classificatoria di quel tempo e quindi le Collezioni sono state divise per generi, ma così facendo in qualche modo le si è violentate. Il progetto da cui siamo partiti non consta nella ricostruzione del Complesso cancellando completamente la parentesi positivista ottocentesca, perché non avrebbe senso scientifico da un certo punto di vista e sarebbe un modo di compiere una scelta filologicamente scorretta».
Quindi la storia delle Collezioni della Pilotta sarà documentata e testimoniata in ogni suo step?
«Tutti gli strati del tempo vanno mantenuti. L’obiettivo è ritrovare la ricompenetrazione tra i generi. Quindi mettere assieme sia una ridistribuzione di tipo cronologico, seguendo un criterio logico positivista e geografico delle Collezioni, sia prevedere inserti di storia delle Collezioni che chiariscano come queste logiche diverse sono andate affastellandosi».
Questo approccio è esteso anche al patrimonio archeologico?
«Per il Museo Archeologico bisogna distinguere le Collezioni che arrivano dal territorio da quelle che vengono dal collezionismo privato. Utilizzeremo l’Ala Ovest per esporre il collezionismo ducale, degli antiquari, che non proviene dagli scavi del ducato, più una sala dove si spiegherà la storia delle Collezioni archeologiche. L’itinerario sarà cronologico: dal Paleolitico al Tardo Antico. Si tratta di riadattamenti, non di stravolgimenti. Il problema principale è far fronte al degrado strutturale. Come è accaduto per lo Scalone Monumentale e le pareti intorno, che versavano in pessime condizioni e che abbiamo completamente ripulito e recuperato restituendo loro la dignità originaria. La prima sala dell’Archeologico dovrebbe essere pronta entro dicembre. Spero che i lavori potranno concludersi entro il 2020».
Oltre al verbo recuperare quale altro le ha fatto da guida?
«Rimusealizzare, ossia ripensare le diverse porzioni museali in modo che il Complesso sia fruibile come un’unità. Come un percorso fluido nella storia dell’arte italiana. Con un unico biglietto i visitatori accederanno ai diversi ambienti della Pilotta e ai loro tesori».
Prevede l’utilizzo di mezzi tecnologici per mettere a punto la sua idea di fruizione unitaria?
Ci sarà un tavolo multimediale interattivo dedicato alla storia delle Collezioni. Ma sono scettico sull’utilizzo di strumenti high-tech perché distraggono, sviano l’attenzione. Non si deve essere subalterni agli altri mezzi di comunicazione. Ogni linguaggio veicola un messaggio e ha la sua dignità. Da McLuhan in poi sappiamo che in gran parte il messaggio è determinato dal linguaggio. Se cambia il linguaggio, cambia il messaggio. Quindi se si introduce nella fruizione dell’arte la spettacolarizzazione con un altro linguaggio le opere vengono svilite. Invece nei visitatori va stimolata sia la tensione emotiva sia l’attenzione intellettuale e culturale necessarie a sentire che è utile concentrarsi, spendersi per comprendere il quadro, la scultura, il capolavoro che si ha davanti. Nel concreto, per facilitare questo processo, si dovrebbero promuovere attività di mediazione culturale, dibattiti, visite guidate, occorrerebbe prevedere periodicamente pubblicazioni, come newsletter articolate e una rivista scientifica su cui raccontare quello che viene fatto dal museo».
Perché trova che i mezzi tecnologici distraggano?
«Quando lavoravo ad Abu Dhabi avevamo commissionato delle ricerche sulle diverse modalità percettive di fronte a un video e a un quadro. Da un punto di vista genetico l’uomo è attratto dalla luce e dal movimento perché per ragioni difensive ataviche ciò che si muove e si illumina potrebbe essere una minaccia. Questo tipo di considerazioni hanno un impatto enorme sulla percezione all’interno di un museo. Quindi posizionare per esempio uno schermo accanto a un’opera per raccontarla equivale a spostare del tutto l’attenzione dal quadro al monitor. L’unico modo per un museo di esistere nel contemporaneo in maniera propria, senza tradire la sua missione, non è quello di dotare lo spazio espositivo di schermi che proiettano cose improprie, ma di continuare a farne un luogo di stratificazione culturale, con gli stessi linguaggi del passato, proiettati nel presente. Nel contemporaneo».
I musei sono luoghi di conservazione, ma possono essere anche centri di ricerca interessanti. I suoi obiettivi contemplano questa funzione?
«Un museo è per forza un luogo di ricerca. Se non è tale non è un museo. Rappresenta la parte più ambiziosa del mio programma. Non so se riuscirò a portarla a termine durante il mio mandato, ma è un asset fondamentale. Le Collezioni hanno una risonanza internazionale e quindi hanno un ruolo, anche dal punto di vista critico, se si riesce a costruire loro intorno una tradizione storico critica. Se non lo si fa, se non si coinvolgono i ricercatori, se non li si fa entrare nel dibattito, se non si usano le opere come documenti comprovanti la storia del gusto, piuttosto che la storia del loro periodo di riferimento, non si va da nessuna parte. Tra i miei piani rientra anche il recupero della Rocchetta, una porzione dell’edificio che versa in pessime condizioni, per dar spazio a una residenza di artisti e, soprattutto, di ricercatori».
Lei ha un curriculum di respiro internazionale: la sua ultima esperienza è stata con l’Agence France-Muséums/Louvre Abu Dhabi. Qual è il suo modello di riferimento museale?
«Quello anglosassone, sia americano sia inglese, perché contiene l’idea di museo partecipativo, che crea comunità. Il rapporto tra il pubblico e i professionisti del museo è utilissimo perché ogni tipo di sensibilità apporta una diversa prospettiva del mondo e contribuisce a fare in modo che gli studiosi, i ricercatori, i museologi non si rinchiudano dentro la loro visione, ma si mettano continuamente in discussione».
Quali sono i requisiti di un museo partecipativo?
«È tale un museo aperto alla ricerca, con bandi di concorso, ma anche quello dove il pubblico più comune interagisce attraverso le associazioni. Come il MoMA, per esempio, che ha mille galassie».
Lei afferma spesso che i musei sono strumenti di emancipazione. Cosa intende esattamente?
«Le opere d’arte esposte possono servire come documenti del passato, per comprendere la nostra storia. Il museo nella società occidentale diventa la chiesa laica della democrazia, perché è il luogo dove si va e si toccano con mano le prove di ciò che è stato. Dove si può capire chi si è e leggere il passato con i propri occhi, sfatare pregiudizi e preconcetti. E per questo sentirsi liberi».
Il suo mandato è di quattro anni più quattro. Un bilancio dei primi 30 mesi?
«È tutto estremamente faticoso. Lavorare in questo Paese non è facile. Sono subissato di problemi ogni giorno e non dipendono certo dal Ministero. La prima cosa che ho dovuto fare è stata restaurare le opere, mettere a posto le cornici, i tetti. Sistemare persino le fognature. Ma sull’altro piatto della bilancia c’è la consapevolezza che faccio il mestiere più bello del mondo».
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