Categorie: Personaggi

Speciale Biennale/Parlano gli artisti del Padiglione Italia

di - 28 Marzo 2013
Un ragazzo è vestito da calciatore: pantaloncini, calzettoni, scarpe con tacchetti, maglietta rossa con la stampa di un’aquila nera e una bandierina (simboli dell’insegna albanese). Ha un pallone in mano. Sulle spalle uno zainetto beige che contiene registratore e casse per diffondere, nei giardini della 48a Biennale di Venezia, la radiocronaca di una partita di calcio. Padiglione Clandestino, la prima Abenteuer di Sislej Xhafa (nato a Pec – Kossovo, 1970) negli spazi dell’Esposizione universale italiana, un «padiglione ambulante», ha suggerito giustamente Bartolomeo Pietromarchi. Che rappresenta un originario/originale sfogo estetico ed etico, un’apertura (attraverso le scappatoie dell’illegalità) ai brani dell’integrazione, della partecipazione planetaria.
Con una pratica critica che salta il fosso del perbenismo e delinea una sorta di – oggi quantomai necessario – risveglio collettivo, Xhafa realizza, da tempo, opere ardenti, progetti luminosi che pongono al centro del discorso l’uomo, la società, lo scorrere costante della vita.
Ironico e irriverente il suo lavoro punta l’indice visivo sul viaggio (un viaggio alla scoperta della libertà perduta?) determinato, questo, dall’incontro con l’altro per toccare il nervo scoperto di problematiche che ristabiliscono un contatto pungente con i temi dei diritti umani, del trasferimento, della contumacia.
Soltanto due anni dopo la performance clandestina del 1997, Xhafa è ospite di Harald Szeemann nel disegno legittimo della 49a Esposizione Internazionale d’Arte. Di una Platea dell’Umanità in cui l’artista, dissacrante e provocatore, mette in crisi, con eleganza, le ipocrisie di una società multietnica, multirazziale, intollerante e discriminante.
Nel 2005, invitato ufficialmente a rappresentare l’Albania, Xhafa propone, Ceremonial Crying System PV, un lavoro monumentale, una struttura provvisoria che indica, attraverso la sua forma, un programma linguistico volto a devitalizzare le oppressioni, a mostrare vie di scampo, ad agire sui poteri scomodi e sulle intolleranze, a costruire una riflessione su quella che Henry David Thoreau ha definito essere basilare «Civil disobedience».

Oggi Sislej Xhafa è, per la quarta volta, negli spazi della Biennale, invitato da Pietromarchi nel Padiglione Italia per proporre, ancora una volta, il suo discorso serrato sulle “forme di dominio” (Russel), su conquiste creative che rappresentano il punto più alto di conoscenza umana, di libertà. Ecco come lo racconta.
Vorrei partire dal Padiglione clandestino (1997) proposto nei giardini della Biennale, una performance luminosa con la quale hai affrontato alcuni temi, centrali nel tuo percorso, legati al viaggio, allo spostamento, all’immigrazione. Da quale riflessione di fondo nasce la scelta di utilizzare il gioco del calcio?
«Volevo solo vincere 2 a 0».

Nel 2005, in occasione della prima partecipazione ufficiale dell’Albania alla Biennale hai presentato, invitato formalmente da Cecilia Tirelli (Commissario del Padiglione), Ceremonial Crying System PV. Accanto ad una forma che rimanda immediatamente al cappuccio del Ku Klux Kla (ad un’immagine legata alla discriminazione razziale, all’aggressività, all’atrocità) che radi al suolo attraverso le lacrime (simbolo di sfogo, di carità, di perdono, del senso di colpa), i materiali e le tecniche adottate evidenziano, mi pare, la volontà di concepire un progetto monumentale maneggevole. L’idea di concepire un’opera smontabile, provvisoria, facilmente trasportabile, indica la condizione nomade dell’uomo contemporaneo? O i pericoli di uno spostamento della violenza di turno?
«Non penso, io agisco. L’invito a rappresentare la prima partecipazione ufficiale dell’Albania è stata una esperienza e una sfida. È l’opera che diventa l’invenzione del suo tempo. L’invito di Cecilia Tirelli, giovane curatrice italiana, è stato essenziale. L’architettura non voleva essere una via di fuga, non voleva nascondere nulla, ma porre al centro la questione della società che ci rappresenta. L’opera doveva diventare l’architettura e non nascondersi nell’architettura stessa».
Al centro del tuo lavoro è sempre presente un nucleo etico che fa i conti con i diritti umani, con i doveri sociali. Pensi che attraverso l’arte si possa rieducare l’umanità ad un senso civico, ad una sensibilità etica, ad un progetto solidale, ad una inedita libertà?
«Con l’arte io pongo le domande, ma non ho le risposte».

Silvio (2010), Impiegati del mese (2011), Barka (2011) sono soltanto alcune delle opere recenti attraverso le quali mostri le difficoltà quotidiane – difficoltà economiche, politiche – delle società moderne. È un processo per analizzare il presente, il reale, la vita quotidiana? Per condividere, attraverso la forza dell’arte, i grandi problemi che affliggono il mondo?
«La complessità della società le trovi nelle dinamiche e sfumature, io sono un uomo timido. Il potere dell’arte è mettere in discussione senza retorica i problemi che ognuno di noi ha nel quotidiano. Io sono engagé».
Per la 55esima edizione della Biennale di Venezia sarai messo, affianco a Piero Golia, in una delle sette sale previste da Bartolomeo Pietromarchi per il Padiglione Italia (Vice Versa). A differenza di Golia, la cui linea è strettamente legata alla vita immaginaria, tu rappresenti il recupero della realtà, la vita reale. Come pensi di rapportarti in questo ambiente Vice Versa?
«Giocando a ping-pong».
@https://twitter.com/antonellotolve?lang=it

Nato a Melfi nel 1977, è critico d’arte e curatore indipendente, e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Ha conseguito il Ph.D all’Università di Salerno ed è stato visiting professor in diverse università. Tra i suoi libri ABOrigine (2012), Esposizione dell’esposizione (2013), Ubiquità (2013) e La linea socratica dell’arte contemporanea (2016).

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