La questione di fondo che pone Enwezor riguarda il ruolo del curatore. Se questa sia in effetti la (relativamente) nuova figura di intellettuale in grado di incarnare sia l’aspetto concettuale (nel caso suo, di derivazione sociologica e filosofica), sia quello estetico-formale che compete all’arte, nella sua autonomia, pur non essendo l’arte mai disgiunta dal contesto nel quale si forma e al quale dà forma.
Enwezor tiene con determinazione la barra di una riflessione socio-politica ampia, con riferimenti alle impalcature del pensiero critico, in particolare europeo (da Habermas a Debord, da De Certeau a Bordieu, o Benjamin) come emerge con chiarezza in uno dei suoi testi più espliciti: Mega Exhibitions and the Antinomies of a transnational global form (2004), con lo scopo di rivedere, grazie all’apporto critico dello stesso pensiero occidentale, la relazione fra Occidente e resto del mondo. A partire da quell’Africa, di cui fin dai primi anni ’90 Enwezor ha notato la pressoché completa assenza sia nelle grandi esposizioni che nello stesso mercato dell’arte. Enwezor si profila in quegli anni, e coronerà la sua ricerca nella direzione artistica della Biennale di Johannesburg nel 1996-97, come un esperto conoscitore dell’arte africana contemporanea, in grado di presentarla nei grandi circuiti internazionali, nelle mega exhibition, vivendo così fino in fondo la sua doppia cittadinanza, nigeriana e americana. Il doppio sguardo di chi per un verso si cimenta senza alcuna remora con capisaldi contemporanei del pensiero critico, con la tradizione della storia dell’arte e delle avanguardie e, per altro verso, con quella metà del cielo che ormai i processi di globalizzazione rendono una condizione non solo generale, ma anche individuale. L’Africa, le sue figure eminenti (artistiche, ma non solo), viene saggiata, proposta, prima ancora che attraverso esposizioni, attraverso strumenti quali NKA: Journal of Contemporary African Art, rivista che ha celebrato da poco i vent’anni di attività.
La rilevanza attribuita alla ricerca analitica, la strutturazione di occasioni di confronto internazionale fra intellettuali di diverse discipline e provenienze, è un elemento ricorrente nella sua attività; quasi che il piano delle ‘cose’ da vedere, da esporre (le opere) non debba essere disgiunto dalle riflessioni intorno ai contesti che generano quelle medesime forme. L’arte di fatto diventa il fattore coagulante, l’elemento che permette l’addensamento di pratiche di riflessione che escono così dai confini di stretta pertinenza accademica.
La mostra che ha definitivamente posto Enwezor fra i curatori più influenti è, come è noto, Documenta 11 (2002). Ma l’esposizione non era, negli intenti del curatore, che una delle cinque piattaforme per il confronto globale delle idee, per esattezza la quinta, quella che ha dato l’avvio e portato infine a conclusione ciò che era stato preparato attraverso le quattro altre piattaforme, ampie tavole rotonde di discussione (democrazia, giustizia, créolité e creolizzazione, città in stato di guerra) organizzate come “a series of deterritorializations” a Vienna, New Dehli, Berlino, St. Lucia (Caraibi), Lagos (Nigeria). Questo aspetto può essere percepito come una superfetazione teorica, che, nel caso di Venezia, raggiunge un suo acme con la programmata lettura integrale del Capitale di Marx e con l’organizzazione di innumerevoli incontri a cui è affidato il compito di animare l’intera rassegna, documentabile, nel suo effettivo essersi svolta, solo in un secondo tempo, in pubblicazioni conclusive che prevedibilmente tracimeranno ben oltre le dimensioni di un pur cospicuo catalogo e, che nel caso specifico, hanno avuto effettivamente un precedente nei ponderosi tomi che documentavano l’edizione veneziana del 1974: quella forse più engagè.
Se vi è una accentuazione in questo senso, che riguarda la Biennale n. 56, rispetto ad altri impegni di Enwezor, tale accentuazione riguarda proprio l’aspetto orale, performativo, la comunicazione dal vivo. Insomma la parola concepita non più come una dimensione statica, ‘scritta’, ma la parola trasmessa direttamente, occasionale, quanto pervasiva, che può tradursi anche nel canto o nella ritualizzazione teatrale di una regia della lettura (Isaac Julien a cui è affidato il compito di coordinare la lettura di Das Kapital).
Viene da chiedersi quale sia l’intento di questo sforzo culturale che ha qualcosa di epico nel suo tentativo di tenere insieme l’Occidente e la critica che quest’ultimo rivolge a se stesso, la considerazione di altre tradizioni, altre ricerche, ma che in quella occidentale, e nelle sue istituzioni culturali, comunque continuano a confluire, o a riferirsi (vedi il modello della Biennale moltiplicatosi esponenzialmente negli ultimi decenni). Considerare gli esiti della decolonizzazione, o della post-colonizzazione come modalità di ripensare lo stesso concetto di cultura e di identità, quando il concetto di stato-nazione sembra venir meno? Prestare attenzione piuttosto a quella condizione ‘diasporica’ che fa di ognuno di noi, una persona ibrida, fatta di sradicamenti, cambi di luogo e residenza, di innesti esperienziali e culturali diversificati? Dunque, non solo l’Occidente, non solo l’Africa, non solo l’Oriente, l’America meridionale o qualsivoglia altro luogo del pianeta, ma il loro essere tutti e parimenti dramatis personae nella messa in scena di un vasto spettacolo globale. Spettacolo che lo sguardo del curatore contemporaneo contempla, un po’ come fa, in un noto quadro di C.D.Friedrich, quell’elegante viandante sulla cima di una vetta alpina intento a scrutare ciò che emerge dal mare di nebbia.
Alla Biennale di Enwezor può davvero essere affidato il compito di cogliere non solo l’orizzonte presente, ma anche le lontananze, il diradarsi delle foschie? A ben guardare tale compito ha un sapore di altri tempi: un retrogusto ‘profetale’. Non è dell’oggi che una mega exhibition tratta, ma del non ancora, del futuro. Come letteralmente viene indicato nel tema dell’edizione 2015 (All the World’s Futures). Verrebbe da ricordare Primo Levi, che avvertiva non essere più tempo interpretabile da un poeta/vate, richiamandosi ad un altro senso della misura come azione possibile nel mondo.
Pur con il rispetto davvero dovuto al percorso di Enwezor, ci si chiede se il nostro tempo possa essere effettivamente interpretabile dal curatore/filosofo e sociologo, instancabile viaggiatore e vaticinatore. O se non stia qui una paradossale antinomia, quella che fra le pagine, le voci e gli spazi di una mega esposizione reintroduce la figura del demiurgo in grado di sciorinare davanti ai nostri sensi un ultimo, aggiornato Gesamtkunstwerk.
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>>>Caldura firma interventi che non sono critica d'arte e vorrei che nessuno li confondesse per tali. Siamo dinnanzi a testi ibridi che utilizzano l'arte visiva solo come pretesto, reperto inerte sul quale, più che applicare, direi proiettare astratti esercizi retorici - qui sul ruolo del “direttore artistico-Biennale” - sovrabbondanti di nomi altisonanti, schemi gerarchici, scenari globali, e condizionate in senso ideologico. Esercizi accademici in cui l'unica risposta possibile ad ogni ipotesi sembra sia un professorale scetticismo dubitativo e dove risulta assai difficile rintracciare riferimenti che possano introdurre alla comprensione del linguaggio visivo prima, e di una poetica d'artista poi: le opere d'arte esposte sono praticamente assenti nell'articolo, resta un mistero perché ne facciano da corredo illustrativo.
In quanto scrittura ibrida risulta incollocabile in alcuna disciplina specifica tranne che in quella bolla di cattiva letteratura di chi vorrebbe riportare la fenomenologia delle arti visive (e la radicale alterità di pensiero che rappresentano) nell'alveo dei dispositivi propri del linguaggio verbale senza passare attraverso il metodo critico, gravandola di un'enfasi tale da evocare tragicomici bollettini meteorologici “Alla Biennale di Enwezor può davvero essere affidato il compito di cogliere non solo l’orizzonte presente, ma anche le lontananze, il diradarsi delle foschie?”.
I risultati? Cercate la recensione dove Caldura, dopo averci informato sulle sue (non di un artista) congetture filosofiche osservando mozziconi di sigaretta tra i masegni di Venezia, visita una mostra a Punta della Dogana senza “comprendere” nulla, a suo dire perché non c'erano chiare didascalie esplicative accanto ai titoli di opere troppo poco verbalizzate per le sue aspettative. Davvero, se le opere lo lasciano indifferente, non c'erano cicche su cui filosofeggiare alla Biennale di Enwezor?