26 novembre 2019

Tommaso, ovvero i demoni dell’artista. Intervista con Abel Ferrara

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Abbiamo incontrato il regista italo-americano all'ultima edizione della Biennale e ci ha raccontato del suo “Tommaso”: una confessione intima e un racconto senza remore del suo essere artista

abel ferrara
Abel Ferrara credit Claudia Sodano

L´ultima pellicola di Abel Ferrara è la narrazione del suo inferno personale, in cui le tinte fosche del suo sentire sfumano nei toni caldi dei pomeriggi romani. Il suo alter-ego Willem Defoe è sineddoche dell’uomo contemporaneo, portavoce di un dissidio il cui carattere autobiografico si fa universale.

Da dove nasce l’idea del nome Tommaso?

«Si tratta di una scelta stilistica. La lingua italiana ha una sua particolare bellezza: la melodia del suono. Fluisce in un modo completamente diverso dall’inglese. Anche il mio nome – Abele – amo sentirlo pronunciare in italiano».

Tommaso non è il primo film che giri in Italia, la fascinazione per la lingua non è l’unica cosa che ti lega ad esso. Qual è la tua relazione con questo Paese?

«Io sono un italiano-americano. Mio nonno era di Sarno, vicino a Napoli. Venne negli USA, dove ricreò, insieme al fratello, lo stato napoletano a Little Italy. Per questo il sud Italia è nelle mie radici. Così, quando sono venuto a Roma, ho sentito questa connessione. Ho lavorato molto in Italia. È stata, per me, come una nuova frontiera: Napoli, Roma… e New York! A Roma poi ho incontrato Christina, abbiamo avuto la bambina e ora viviamo lì insieme».

A proposito di Napoli, nel film ci sono anche molti riferimenti culturali alla città, per esempio alla musica di Nino d´Angelo…

«Nino è un mio amico! Abbiamo suonato insieme a Napoli, vicino alla Stazione Centrale… Un quartiere folle! Napoli e Roma sono due mondi completamente diversi».

So che hai anche dedicato altri progetti alla città, come ad esempio il documentario: Napoli Napoli Napoli. Sono rimasta sorpresa dal fatto che fosse incentrato esclusivamente sulla micro-criminalità e la violenza derivante dai problemi sociali della città.

«In realtà, il nostro desiderio era di fare un film sulle donne in prigione, volevamo raccontare le loro storie e contestualizzarle all’interno della città. Il progetto mi sembrava interessante, ma è stata dura. Dopo due giorni volevo uscire da quel posto. Ciononostante, devo ammettere che si percepiva una certa umanità tra quelle mura. A Napoli le persone si prendono cura l’una dell’altra, e lo fanno anche in una situazione del genere».

Tornando a Tommaso, com’è stato lavorare con tua figlia?

«Diciamo che eravamo in un “family business”. Willem è il padrino di Anna e Christina è la madre. Tra di loro c’era una forte connessione. Anna doveva, in un certo senso, interpretare se stessa, per questo motivo non aveva senso prendere un’attrice per il suo ruolo, sarebbe stato contrario alla natura del film».

Tommaso, attraverso lo yoga e la meditazione, cerca un cammino per uscire dal suo inferno. Ma le sue pratiche quotidiane non sembrano aiutarlo.

«Non è una questione di successo o fallimento. Dalle sue pratiche Tommaso può ottenere un beneficio oggi e un fallimento domani. Rispetto a questo non c’è una conclusione. Tommaso si trova nel mezzo di un percorso, la fine del film non coincide con l’esaurimento della sua sofferenza».

Cosa mi dici dei tuoi progetti futuri?

«Ho appena finito le riprese di Siberia. In seguito mi piacerebbe fare un film su Padre Pio, in Puglia. Mi piacerebbe avere Luca Marinelli per questo ruolo».

L’opinione comune è che Tommaso sia un film autobiografico. Tu stesso lo definiresti così?

«Beh, sì. Si può dire che sia autobiografico. Del resto, ci sono mia moglie e mia figlia ed è girato a Roma, nel mio appartamento!».

 

 

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