17 febbraio 2008

TORINO RACCONTA TORINO: TUCCI RUSSO

 
Dalla metà degli anni ’60 alla prima decade del nuovo millennio. Da Torino a Torre Pellice. Dai primi tentativi nella critica alla collaborazione con Sperone, fino alla galleria-kunsthalle immersa nel verde. La vicenda di Tucci Russo raccontata in prima persona...

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È un giorno di sole deciso. Uno dei pochi, se non l’unico, di inizio gennaio. Dal centro di Torino, per arrivare a Torre Pellice, ci si mette all’incirca un’ora e mezza. Il tempo per prendere un treno e un autobus, l’uno di fila all’altro. Più si esce dalla città, più si fa largo il Piemonte polveroso e terso, a ridosso delle montagne. Per l’occasione, innevate. Quindi si arriva allo Studio per l’Arte Contemporanea Tucci Russo. La galleria è uno spazio enorme. Una volta era adibito alla produzione industriale del settore tessile. Un complesso di mattoni vivi che al suo interno consta di oltre mille metri quadrati di superficie espositiva. Bianchissima. Tra queste pareti sono esposti lavori di Buren, Cragg e Long. O ancora Gennari e Piscitelli, per proseguire con i maestri: Merz, Penone, Paolini e Anselmo. I soffitti a piombo poggiano su colonne esili che s’innalzano sulla verticale, seguendo un’altezza che a volte supera gli otto metri. Le lampade al neon e gli intermezzi di cristallo catturano la luce, facendola rimanere ovunque. Nella giusta misura. Trasparente. Poi l’ideatore di questo piccolo impero, Tucci Russo (Carema, Torino, 1944), ci accoglie.

Tucci Russo - Ritratto - photo Nanda Lanfranco, GenovaRaccontaci dei tuoi inizi…
Potremmo far cominciare la mia storia di gallerista nel 1966. Allora mi trovavo a Torino. In quegli anni c’è stato il passaggio, il cambio generazionale e in città si respirava l’arte, la letteratura e la poesia. Si era molto sensibili alla politica e ai suoi ritorni, all’influenza che aveva sulle organizzazioni studentesche, i ritrovi che si facevano per teorizzare tutto. Lì nacque l’Arte Povera. C’erano le idee in comune e molta stima reciproca. In quegli anni frequentavo la galleria Sperone come fruitore, non come critico d’arte. In realtà ci sono stati dei tentativi, in quegli anni, ho provato a collaborare con “Flash Art”, ma non era terreno per me. Io allora frequentavo Merz e il suo gruppo, tutti eravamo sensibili all’arte e alla politica, c’era grande interesse su questi due temi, si facevano profonde chiacchierate ed eterni dibattiti, quelli stessi che poi sono diventati così importanti anche rispetto ai fatti della Biennale di Venezia del ’68, noi eravamo la testa di ponte tra il movimento studentesco e artistico e il canale delle gallerie. Quei luoghi dove tutto ciò che veniva prodotto e aveva destinazione borghese, “da salotto” diciamo, non innovativo né culturale. Fuori da lì non c’era quasi traccia del movimento che si stava creando. Noi sostenevamo degli ideali che erano in rapporto eppure si trovavano appena fuori al sistema politico. Era un impasto creativo che si amalgamava tra gli amici del gruppo poverista, di cui io facevo parte, anche se le increspature che si formarono sin dagli inizi non permisero di definire un luogo culturale autogestito, come il Deposito. Ci furono lunghe diatribe su quello spazio che aspettava sovvenzioni mai arrivate e che subiva soventi invasioni di campo di figure come Pasolini, che peraltro, nel Deposito, vi fece delle letture. Dunque, nel ‘68 collaboro con Sperone, sono gli anni di grande fermento nei quali entrano a far parte delle scuderie di artisti anche Fabro e Paolini. Alla fine del 1974 chiudo i miei rapporti con Sperone dopo aver conosciuto i grandi della scena internazionale come Long e Douglas. Sperone, in effetti, non metteva in luce l’immagine degli artisti italiani, si facevano 11-12 mostre l’anno, c’era un aggiornamento continuo di persone e materiali. Ma la verità era che c’era una discrepanza di informazione tra ciò che succedeva in galleria e il clima attorno. Sperone faceva un sacco di personali e solo due mostre su dieci riguardavano l’arte italiana. Questo non trasmetteva un’informazione corretta della situazione artistica e giovanile del momento. Sperone aveva contatti costanti con 33-34 artisti, lui era un imprenditore d’arte, un venditore, era lui stesso che pensava costantemente di mantenere un parco artisti per conferire rispetto e visibilità internazionali alla galleria torinese.

Tony Cragg - Clear Glass stack - 1999 - vetro - cm 240x115x115 - courtesy Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice - photo archivio fotografico Tucci Russo Studio per l’Arte ContemporaneaE la tua esperienza come gallerista?
Dunque, fin da subito, fin da quando ho smesso di frequentare la Galleria Sperone, il mio obiettivo fu quello di reintrodurre un discorso, un’evidenza, una specie di urgenza che era rimasta inespressa fino ad allora. Una sorta di necessità espressiva. Discorso questo che mi riuscì solo nel momento in cui tornai a “piede libero” e mi resi conto che l’arte italiana era ancora poco considerata. Così affittai una sede, un ex garage a Torino di 250 metri quadri e presi contatto con l’artista più rappresentativo di quella generazione d’artisti, cioè Calzolari, che avrebbe potuto essere messo in dialogo ideale con Kounnellis, perché assieme avrebbero dato risalto a due accezioni diverse dell’idea di scultura, per la prima volta messa in rapporto al processo e alle modalità della performance. Così feci la prima personale di Calzolari, esponendo opere che erano incluse in un periodo specifico e cioè quelle ideate fra il 1966 e il 1971, opere che a parer mio meglio rispecchiavano l’arte in movimento. Dopo di lui proseguii cambiando sede espositiva, presso il Mulino Feyles, e per la prima volta, nel 1976, proposi Chia. Subito dopo ho operato scelte meno fortemente concettuali che riguardarono artisti come Bagnoli e Salvadori, per poi ritornare a Chia nel ’78 e a Merz che, per quindici anni, ha avuto il suo studio esattamente di fianco al Mulino. Da quel momento in avanti ho sempre fatto e amato i parallelismi, perché evidenziano delle linee guida attorno alle quali si può dare una certa continuità di temi, una visione compatta di quello che s’intende proporre in termini di arte. Ecco poi che da questi inizi sono derivati, ancora oggi, nomi come Caravaggio, Piscitelli, Rhode, Long e via discorrendo. È così che ho creato la mia storia, attraverso l’arte povera, ma anche grazie alle mie conoscenze e all’interesse che avevo in merito. Realizzai che da lì, da quel movimento, in quegli anni, fosse possibile dare e ritrovare un’immagine nuova dell’arte, attraverso un tradimento rispetto all’andamento pittorico e istituzionale presente. Io non amo fare talent scouting. Basta solo guardare. Basta distinguere e vedere se c’è coerenza, se permangono dei concetti nel lavoro di un artista, quello stesso che non sempre è in grado di esprimersi e quindi di esprimerli al meglio. Fatto sta che bisogna sempre immergersi completamente nel territorio estetico in cui si vanno a esplorare le novità, di qualunque natura esse siano.

Qual è stato per te l’artista più “difficile” col quale avere a che fare?
Forse Enzo Cucchi. Ma perché quella che è l’organizzazione di una mostra è per me un dialogo, uno scambio continuo, ininterrotto di idee. Un progetto di esposizione specifico che viene a crearsi in primis tra gallerista e artista e in secondo luogo anche grazie, e attraverso, i collezionisti. Con lui, con Cucchi, questo dibattito, questo terreno comune, si è interrotto. Allora attorno a noi, parlo della fine degli anni ‘70, c’era un forte interesse di mercato nei confronti della pittura. C’era stata una relativa, pericolosa crescita di questa, perché era più semplice la modalità di vendita e perché c’erano maggiori fruitori e quindi più disponibilità economiche. È stato facile perdere il punto di vista su quel che volevo fare e su quello che Cucchi intendeva come idea di mostra. Il mio sarebbe stato un progetto espositivo di difficile commercializzazione. Quella che avevo in mente non sarebbe stato una mera esposizione di dipinti. La pittura non era più estrema novità, le avanguardie precedenti erano state comunque meno corteggiate. Il mercato globale in quegli anni, aveva dissacrato i periodi antecedenti per seguire le correnti globali degli anni ‘80, quelle che rompono questa situazione di tumulti e rovesciamenti di metà del secolo. Si seguivano le tratte europee e americane di Fluxus e Pop Art. E a me questo piaceva molto poco.
Paolo Piscitelli - Platonic 5 - 2006 - videoproiezione - 11'20'' - photo Paolo Piscitelli
Ci fu quindi un punto di svolta nelle tuo “parco artisti”?

La svolta ci fu, è vero, e fu a Stoccarda a Europa79. Lì osservai la situazione tedesca e l’audacia delle proposte di altre gallerie scandinave. Lì conobbi i lavori di Cragg, di Buren, ebbi modo di vedere il talento di Schütte e capii che non avrei potuto fare arte, proporre scultura, una nuova dimensione insomma, senza includere i loro lavori e le loro visioni, all’interno del mio percorso.

Cosa intendi per scultura?
La scultura è prima di tutto guardare. È individuare un’energia, uno slancio che poi si trasmette da un corpo a un altro. È un processo descrivibile in senso ampio e relativo. È un concetto che io amo mettere in relazione ed evidenziare all’interno dei lavori di diversi artisti. E di come utilizzano la materia. Nei miei spazi, per esempio, Cragg precede il lavoro di Long, la differenza è che l’uno restituisce alla forma le pietre trovate, ridisponendole sulla superficie del pavimento; mentre l’altro usa la plastica come contenitore di contenuto, come serbatoio auto-creativo per la materia stessa. Così si potrebbe parlare di scultura tanto per Zorio come per Anselmo. Anche la pittura riconduce e riadatta linguaggi presi a prestito da altre discipline e da altri codici espressivi, come la letteratura, la poesia e il teatro, registri che invece oggi sono superati e sostituiti dall’alfabeto e dal continuo chiacchiericcio dei media. Il mio lavoro attuale tende a darsi una continuità usando un corollario di concetti che si estendono e si intrecciano tra loro, secondo un andamento teorico verticale. Le idee stanno sopra, permangono sul quotidiano e stanno a guardia dell’orizzontalità delle cose e della loro facilità di cattura, da parte del mercato ritrito delle merci.

Tony Cragg - Making Sense - 2007 - fibra di vetro - cm 225x120x160 - courtesy Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre PelliceEssere artista è dunque…

…essere prima di tutto un artigiano. Produrre artisti di qualità, posso dire a mia volta, è creare con dei creatori. È pensare a fornire i mezzi per un racconto che non finisce, ma che mantiene una centralità di intenti e una continuità di espressione talmente forti da cristallizzarsi nel tempo. Bisogna però stare attenti a non dare vita a dei prodotti d’importazione, a delle macchine che rendano le gallerie alle proprie spalle delle specie di “venditori di spazzole”, piazzisti nel mercato dell’arte. Oggi si propongono artisti per fare bella mostra di sé alle fiere, più che per pensare a una seria e coerente attività espositiva. In questo modo si de-contestualizza il proprio spazio e il discorso sull’arte che si è portato avanti, quello stesso pensiero che aveva come pubblico di riferimento una nicchia ristretta di persone e di appassionati. Io ritengo che l’arte oggi si debba riappropriare di quella sacralità che a furia di essere spiegata e cercata a tutti i costi è venuta a mancare, sottraendo l’estetica alla propria condizione di dimensione anomala. La gente deve avvicinarsi all’arte con una certa esclusività, e un’attenta educazione. La gente non si deve muovere come se si trovasse a contatto con un fattore che scatena fenomeni produttivo-innovativi di grande portata. L’artista a sua volta deve essere depositario di un’immagine dell’opera d’arte che è il risultato di un dialogo lungo e costruttivo instaurato col gallerista. È per questo che ho scelto una galleria con degli spazi di questa grana e di queste dimensioni. Uno studio ampio e open space, dove ci fosse la possibilità di creare scambi in assoluta libertà intellettuale e trasparenza concettuale. Io, quando progetto qualche attività nei miei spazi, sono sempre messo al corrente di quel che succede. Tanto nello stato di avanzamento delle opere quanto, soprattutto, prima, nei momenti della loro teorizzazione. Deve esserci uno scambio d’intenti paritario. Da questo punto di vista, per esempio, è stato molto difficile entrare in empatia con un artista come Kounnellis, un grande scultore che fa della propria opera uno strumento di strategia, se mi consenti il termine, politica. I suoi sono spesso lavori pensati per una certa collocazione precisa, opere su commissione. Questo fa dell’arte non come materia assoluta ma come materiale dedicato, materiale preposto che può anche non contenere un’idea in sé.
Robin Rhode - Untitled/Rings - 2005 - 28 fotografie b/n montate su plexiglas - cm 45x30 ognuna
Cosa ne pensi delle nuove generazioni?

Oggi c’è molta complessità, ma la vera difficoltà del primo decennio del secolo è che c’è più coscienza degli scenari artistici passati, quelli che hanno preceduto e preparato la dispersione e la confusione di questi anni. I giovani artisti di oggi, come Piscitelli o Caravaggio, devono fare i conti con i movimenti e le personalità che si trovano alle loro spalle. I maestri e i personaggi che li hanno preceduti. Ad esempio, il lavoro di Caravaggio risente molto dell’influsso di Fabro, sempre presente, in ogni concetto, anche se allo stesso tempo sente il bisogno di superarlo, per passare oltre e creare nuovamente. Ecco perché fare arte, fare scultura in particolare, è estrarre, applicare e trasferire energia da un organismo al corpo della materia. Come un linguaggio che prende forma per esprimersi e continuare a trasformare. È un atteggiamento demiurgico, questo, che ricollega in parallelo ognuno dei miei artisti. Da Anselmo a Long. Forse questo moto, quello del continuo fare pensiero e riversarlo in concreto, è poco piacevole, un moto lento e di trasformazione, come testimoniano i video di Piscitelli. Ma è comunque una ricerca che ha profonde radici in un clima culturale, italiano e internazionale, che testimonia e guida tuttora una ben precisa visione estetica. Ci sono poi artisti come Gilbert & Gorge che travisano questo atteggiamento, rinnegando quasi i propri inizi, le idee e i concetti che un tempo li hanno fatti conoscere e che adesso non sembrano più farli stare a galla, sulla famosa, ormai tanto di moda, onda del successo. Perché la loro ottica ormai è quella di un prolungamento costante sul mercato. Io, per quanto riguarda i giovanissimi, nel cosiddetto scenario del contemporaneo, posso aspettare anni, senza venire colpito da nulla e da nessuno, per poi venire catturato da un’idea o da un concetto che ormai ho bisogno di sentire espresso solo dalle parole, attraverso un dialogo, portato avanti assieme all’artista, di persona, come ho fatto recentemente con Shawcross.

Paolo Piscitelli - Some prefer nettles - 2006 - video-proiezione - 8' loop - courtesy Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre PelliceInfine, che mi dici della ristretta cerchia dei collezionisti?
Beh, ormai i galleristi, così come i veri collezionisti, sono sempre meno. Si sono trasformati tutti, più o meno, in mercanti che mistificano e sofisticano le opere d’arte secondo le leggi del mercato. Ma come può l’arte creare e ricreare la propria sacralità, cioè una sorta di forma del silenzio, se non c’è un attimo di quiete? Troppa informazione crea rumore e disperde i concetti come fossero semplici messaggi che vengono trasmessi dall’arte. In galleria, negli artisti che seguo, non ci deve essere unidirezionalità. Ogni nuova idea deve essere riportata in un nuovo contesto, per evitare di fare dell’arte una visione né troppo referenziale né troppo ampia sull’arte stessa. Una specie di baccano dispersivo che non porta a una separazione e a una trasformazione del pensiero, scisso dal segno che lo fa diventare linguaggio. La storia di circa duemila anni di rappresentazione della condizione umana. Tornando a noi, io cerco di instaurare, con il medesimo intento, un contatto diretto tanto con gli artisti quanto con i collezionisti. Non sempre chi compra segue una linea unica negli acquisti che fa. Allora, intrattenere un rapporto continuo con i propri collezionisti di riferimento li aiuta a non spingere a tutti costi, sul mercato, l’opera d’arte, ma ci permette di mantenere un’unità continua e precisa che dona un senso ulteriore alle cose viste e capite come opere di creazione.

a cura di ginevra bria

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Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea
Via Stamperia, 9 – 10066 Torre Pellice (TO)
Orario: da mercoledì a domenica 10,30-13 e 15-19
Ingresso libero
Info: tel. +39 0121953357; fax +39 0121953459; gallery@tuccirusso.com; www.tuccirusso.com

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