06 aprile 2021

Il mio percorso, tra Matisse e Rauschenberg: intervista a Manolo Valdés

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Prorogata fino a luglio 2021 la mostra di Manolo Valdés a Palazzo Cipolla a Roma: ce la racconta lo stesso artista in questa intervista

La grande esposizione a Palazzo Cipolla, che ha riportato Valdés a Roma dopo ben 25 anni di assenza, dà conto del percorso creativo dell’artista spagnolo dai primi anni Ottanta (poco dopo la conclusione dell’esperienza di Equipo Crónica) fino a oggi. Cogliendo l’opportunità della proroga della mostra, in suo curatore Gabriele Simongini ha intervistato per noi Manolo Valdés.

Che cosa si prova a tenere una grande mostra a Roma?

«Sento una grande responsabilità per ciò che Roma è e per quello che rappresenta. Credo sia facile capire il mio stato d’animo: sono molto preoccupato e, allo stesso tempo, incredibilmente emozionato».

Quale è il suo rapporto con questa città?

«Il mio rapporto con Roma ha avuto inizio quando ero ancora uno studente. L’Italia è una tappa obbligatoria per un pittore, da visitare per la propria formazione artistica oltre che per godere delle sue meraviglie. Io ho avuto l’opportunità di farlo spesso, organizzandovi persino qualche mostra. Ho degli amici nella capitale e ho sempre voglia di tornare a fargli visita. Ripeto spesso che se si ha la fortuna di essere nati o di vivere a Roma, è più facile diventare degli artisti perché si è circondati da luoghi (musei, chiese, palazzi…) che sono inesauribili fonti d’ispirazione».

Lei è uno dei pochi ad aver trovato quasi subito il nucleo della propria ricerca artistica. Già all’inizio degli anni Sessanta, infatti, quando aveva poco più di vent’anni, ha abbracciato la pittura figurativa, il dialogo con i grandi Maestri spagnoli e un profondo interesse per la materia. Sono questi i tre elementi che, sorprendentemente, sembrano essere ancora oggi i principali punti di riferimento della sua ricerca. Come è cambiata la sua prospettiva artistica da allora?

«Ho sempre creduto che la pittura si ispiri a se stessa. La mia ispirazione viene sempre dai dipinti di altre persone ed è una continua sfida scoprire come riuscirò a realizzare un mio lavoro partendo da un Velázquez o da un Cézanne. Sono stati in molti, gli artisti che nel corso della storia hanno reinterpretato opere già esistenti. La storia dell’arte è ricca di esempi e nel mio caso si tratta senza dubbio di una costante. Mi sono abituato a guardare il mondo attraverso gli occhi della cultura. Mi piace il cielo se assomiglia a un Friedrich e amo i girasoli grazie a Van Gogh».

Da dove nasce l’interesse per Matisse che lei ha dimostrato negli ultimi anni?

«Beh, è lo stesso interesse che ho per Velàzquez, Rembrandt, Picasso o Raffaello. Ogni artista ha qualcosa di accattivante, ma il motivo per cui ci si avvicina a lui piuttosto che a un altro è sempre un mistero. Nel mio caso, vedo la realtà attraverso la storia dell’arte ed è per questo che sono interessato a numerosi artisti, tutti molto diversi tra loro. Com’è possibile guardare con gli stessi occhi un taglio o buco dopo che Fontana ci ha insegnato a osservarli in modo diverso? Mi porto dietro qualcosa di ognuno, anche se non li interpreto tutti nelle mie opere. Quando dipingo qualcosa ispirato a Velázquez, non posso dimenticare che c’è stata una pittura astratta, una pittura materica. Non riesco a non tenere conto di tutto quello che è successo fino al momento in cui dipingo il quadro. Ecco da dove vengono tutti i riferimenti che, alla fine, si possono leggere nelle mie opere. Quando scelgo un’immagine del XVI olo come modello, ingrandisco una testa che in origine era di 30 cm e la passo in scala di 2 o 3 metri: è evidente che sia stata la Pop Art a darmene il permesso. Senza le soluzioni offerte dalla storia dell’arte non avrei mai potuto farlo. Inoltre vedo che lo spettatore accoglie l’opera senza sorprendersi perché è già abituato a quelle grandi immagini. Quando nei miei quadri compaiono tre o quattro occhi su uno stesso volto, nessuno si stupisce perché Picasso ha già utilizzato questa soluzione prima di me. Quando esco dai margini o qualche goccia di vernice cade sulla tela, la cosa non mi disturba perché Jackson Pollock o Mark Rothko mi hanno dato il permesso di farlo».

Quali riflessioni ha generato in lei la pandemia di Covid-19? Questa difficile esperienza ha ispirato nuovi lavori?

«Sto trascorrendo questo periodo in campagna, dove ho un piccolo atelier, e mi sono dedicato a fare schizzi per sculture e dipinti da sviluppare una volta rientrato nel mio studio principale. La differenza rispetto al solito è che ho lavorato con mezzi meno tecnici ma non mi sono sentito sminuito da questo. Ancora una volta la Pittura mi ha dato l’esempio. Ho pensato a Paul Klee e a come era solito lavorare con piccoli formati, con gli acquerelli. Mi sono ricordato di come Giacometti avesse realizzato opere titaniche con il gesso in spazi estremamente ristretti. In altre parole, ho lavorato con meno mezzi, ma questo mi ha fatto riflettere molto. Ho potuto constatare che l’abbondanza di risorse non è tutto».

Lei ha stabilito un rapporto molto intimo tra le icone della storia dell’arte e la lavorazione materica, utilizzando i materiali più disparati. La materia ha una sua memoria, secondo lei? È quindi possibile ricollegarla alla Storia dell’arte?

«I materiali sono importantissimi. Quando frequentavo la Scuola di Belle Arti ho fatto il mio primo viaggio a Parigi e ho trovato all’ARC un quadro di Rauschenberg in cui era stata utilizzata un’aquila impagliata. In quella stessa occasione ho notato come Soulages usasse grosse quantità di vernice scura, stendendole con un’ampia spatola. A quel punto mi sono chiesto a cosa servissero i pennelli. Ho pensato che gli artisti non dovessero più comprare i materiali nei negozi in cui mi rifornivo io, perché qualsiasi strumento era buono per dipingere. All’epoca stavo leggendo un libro del poeta Juan Eduardo Cirlot in cui raccontava come Tàpies schiacciasse il carbone e usasse la polvere di marmo come pigmento e le vernici come leganti. Allo stesso tempo, le immagini che vedevo nei cataloghi dei grandi artisti mostravano come la gamma di materiali utilizzati non avesse limiti. Questi insegnamenti, come ripeto spesso, mi hanno reso libero».

Come sceglie un capolavoro del passato da usare come pretesto per una sua opera?

«Quando trovo un’immagine che mi rapisce, che sia in un museo o in qualsiasi altro luogo, ho voglia di analizzarla. Da qualche tempo vivo negli Stati Uniti e ogni volta che esco di casa osservo qualunque cosa o persona mi trovi davanti, come immagini potenzialmente utili. Sono come un cacciatore: costantemente in allerta, a prescindere dalla situazione. I musei, la strada, le immagini in generale forniscono il materiale per le mie opere».

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