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31
gennaio 2015
Turner, tra il genio e l’animale
Personaggi
Il film di Mike Leigh è un racconto biografico magistralmente confezionato, dove però l’originalità dell’artista rimane sullo sfondo. Perché forse il cinema ha qualche problema con l’arte
Più che parlare sembra grufolare, più invecchia e più si esprime con imbarazzanti suoni gutturali e smorfie, ghigni anzi. Anche il passo, pesante ma stranamente elastico, e le movenze ricordano quelle di un massiccio animale, piuttosto che quelle di un uomo. E con le donne ha un rapporto animalesco, che sarebbe sbagliato definire carnale perché di carne ce n’è e se ne vede ben poca, mentre a fissarsi negli occhi è un’attitudine sessuale radicalmente istintiva, quasi infantile nella sua elementarità, e talvolta anche brutale.
Ma chissà se William Turner era proprio così o se il cinema ne restituisce un’immagine un po’ caricaturale, come spesso accade quando questo è alle prese con grandi artisti: vedi i ritratti un po’ bozzettistici di Pollock, Picasso e altri, dove a prevalere sono gli aspetti narrativi a scapito di vicende complesse non riducibili alla mera biografia. Del resto Mike Leigh, presentando il suo film Turner, opera prima della distribuzione della neonata Cinema di Valerio De Paolis, ha detto che se si cercano foto, ritratti dell’artista su Google non esce fuori un’immagine uguale a un’altra. E se non si è certi del suo aspetto fisico, figuriamoci delle abitudini, di come parlava e altro.
In realtà, se c’è un limite di questo, peraltro, bel film, è l’essere schiacciato un po’ troppo sulla vicenda biografica, a parte un’incantevole eccezione di cui parleremo tra poco. Non emerge abbastanza, ad esempio, un elemento di assoluta certezza e che indubbiamente non è facile trasporre in un film. Con Turner siamo di fronte all’artista che più di ogni altro ha consegnato alla storia quella stupefacente trasfigurazione dal paesaggio naturale al paesaggio astratto, frutto di un’elaborazione concettuale radicale e di un’idea della pittura che, anche quando raffigura la natura e il reale, si prende quel magnifico lusso di fregarsene di queste e della mimesi e di tutti questi obblighi che, certo, a Turner, suonavano insulsi, sciocchi, semplicemente intollerabili.
Nelle sue mani le marine diventano luoghi di luce, le tempeste vibrano di intensità e di orrido, Venezia è l’affascinate immagine mentale di una città non il mero ritratto di questa, il paesaggio si sfalda in puro colore, il centro della tela galleggia in un bianco straniante oppure vira al nero per far precipitare lo sguardo. La sua ultima pittura – non capita, ostacolata e addirittura sbeffeggiata come ben racconta il film – è in realtà una vertigine dello sguardo. Per questo Turner è un artista eccezionale, che sfiora il sublime.
L’uomo, invece, pare fosse tutt’altro. Non amava rivelare chi era, proteggendosi sotto l’identità dell’ultima compagna, Mrs Booth, interpretata dall’ottima Marion Bailey, Timothy Spall, che veste i panni dell’artista, è già stato premiato a Cannes per un’interpretazione davvero superba. E sicuramente amava molto il padre, per niente le figlie, rimane addirittura insensibile alla morte di una delle due. E amava soprattutto dipingere, tanto che fino alla fine, ormai avanti con gli anni (muore a 76 anni), malato di gotta e forse meno abbiente di un tempo, visto che i suoi quadri piacevano meno e si rifiuta di venderli in blocco a un facoltoso collezionista pur di non smembrare la sua opera (scelta che ritroviamo in altri grandi pittori, come Monet ad esempio), continuava però a viaggiare, sfidando mezzi scomodi, maltempo e altri fastidi, pur di respirare un paesaggio: l’aria, la luce, i colori, l’emozione e il turbamento.
Ecco, a proposito di questo, è curioso che Leigh abbia fatto ricorso a immagini di paesaggi che non appartengono tanto alla tradizione iconografica inglese, quanto a quella tedesca e scandinava, con esplicite citazioni di Friedrich e Peder Balke, oltre ad evocazioni del paesaggio olandese, come nella bellissima prima scena: un lungo piano sequenza, che pare un quadro in movimento di van Goyen. E l’Olanda, con esplicite citazioni anche di Vermeer, con la luce che filtra sghemba dalle finestre e illumina la scena, ricorre anche in molte immagini degli interni.
A parte queste note che forse possono sfiziare qualcuno, oltre ad essere ben confezionato, il film presenta un paio di imperdibili scene e un passaggio particolarmente riuscito e intelligente. Una delle due chicche riguarda un pomeriggio in casa Ruskin, in una classica foto di gruppo di casa di collezionisti un po’ snob e abbastanza petulanti. Qui il giovane John Ruskin, appassionato dell’arte dello scorbutico Turner, fa sfoggia di saccente erudizione, ma è messo subito a tacere dall’artista e da qualche amico di questi. In un’altra scena, invece, ci troviamo alla Royal Academy of Arts, con i suoi ambienti sontuosi, i tanti quadri appesi alle pareti, tra artisti affermati, come Constable e altri un po’ sfigati, come Heydon. È davvero esilarante la verve con cui Turner tratta colleghi e notabili in visita, a metà tra il cameratesco e la presa in giro di altri artisti e degli illustri ospiti. Prova esplicita di una comunità dell’arte arguta che contava non poco nella società dell’epoca (così come nell’Inghilterra di oggi), ma soprattutto segno di una disinvoltura tipica di colui che si sente a casa propria e che non teme paragoni o giudizi poco generosi, consapevole della grandezza della sua opera. Anche se, successivamente, una visita della regina Vittoria, sempre alla Royal Academy of Arts, in cui la sovrana sferra giudizi pesanti sul suo lavoro, non lo lascia affatto indifferente.
Ma il passaggio più interessante è quando Turner, ormai molto anziano, si reca nello studio di un fotografo per farsi fare il ritratto. E non è particolarmente interessato alla riuscita dello scatto, ma a carpire i segreti di quel marchingegno di cui intuisce le potenzialità, ma che sa anche di non poter governare. Consapevole che quella macchina decreta la fine di un’epoca. Che con l’avvento della fotografia, l’arte non sarà mai più la stessa. E che la sua pittura, la sua grandissima e amatissima pittura, è destinata a tramontare. E lui con essa.
Per fortuna Turner si sbagliava. E la sua pittura, specie quella degli ultimi venticinque anni che il film racconta, ci incanta come se non fosse passato neanche un istante.
Adriana Polveroni