«Afferrò il remo e si aprì un varco tra le secche e rimase lì a guardare il rosso intenso del tramonto scurirsi e morire». È una scrittura asciutta ma non secca, limpida, una conseguenza di parole perfettamente modulata sull’azione in corso, tra le mani graffiate, davanti agli occhi impregnati d’aria salmastra, calibrata sull’immediatamente vicino e sull’inafferrabile suggestione del remoto. Non è difficile riconoscere Cormac McCarthy, anche in questo suo ultimo libro, The Passenger, pubblicato recentemente in Italia da Einaudi e immaginato dall’autore in stretto dialogo con un’altra storia, Stella Maris, di prossima uscita, sempre per la casa editrice torinese. Nella lunga parabola dello scrittore, c’è stato un solo, evidentissimo, personale, sincero modo di dire le cose, dal primo titolo, The Orchard Keeper, 1965, fino agli ultimi. Mai spietato, perché in fondo le cose, anche quelle che appaiono violente, efferate, irrazionali, prima di tutto, prima di ogni giudizio o etica, accadono. McCarthy le afferrava dalla sua fervida immaginazione ma non eccedeva nella produzione di fantasia: la polvere, il sangue, le tracce degli inseguiti, le piste degli inseguitori, il grande mistero che mette sulla stessa linea narrativa vittime e carnefici, martiri e giudici, Figli di dio e Procuratori, tutto è già nell’orizzonte sconfinato della realtà, in un unico, lungo piano sequenza. Questo era il mestiere di Cormac McCarthy, uno degli ultimi scrittori realmente grandi, realmente se stessi.
Providence, Rhode Island – città natale anche di un altro grande maestro di atmosfere americane, il pittore William Congdon, oltre che di H.P. Lovecraft – e poi Knoxville, Tennessee, segnata dall’arrivo della ferrovia, nel 1855, e dalla guerra civile americana. Quindi El Paso, Texas, attraversata dal Rio Grande e circondata dal deserto di Chihuahua. E infine Santa Fe, Nuovo Messico, ultima sua residenza, la più antica capitale statale degli Stati Uniti, fondata dai coloni spagnoli nel 1610 sul suolo dei nativi Tewa. Sono alcune tappe della sua vita sempre appartata e, probabilmente, tra le più significative per la formazione della sua narrativa, insieme a un viaggio in Europa, nella metà degli anni ’60.
Ma sono le radici contorte di un’America enorme e sublime, ad affondare nella scrittura di McCarthy. Che sia il mito della frontiera e la sua decadenza, il sudore dei cavalli e lo sferragliare dei treni – The Border Trilogy – o una distopia cronologicamente imprecisata, allucinante e immotivata – The Road – le sue sono sempre storie di passaggi rapidi, incandescenti, trasversali rispetto alla modernità e sul baratro del futuro, a caccia di scalpi da esigere o destini da riannodare, viaggi di formazione o di annichilimento verso la catastrofe e la speranza. Personaggio invisibile nella scena letteraria internazionale – pur se convitato di pietra per generazioni di autori, proprio come Thomas Pynchon ma con meno culto della personalità – McCarthy ha contribuito in maniera decisiva a descrivere l’epos americano, fin nei suoi rivoli più oscuri e densi. Se Jack Kerouac, di dieci anni più vecchio, era la testa degli Stati Uniti, la strada cerebrale, schierata, l’urlo esplosivo, McCarthy ne rappresentava il ventre teso, muscolare, concentrato.
Alcuni scrittori portano la scrittura in luoghi pericolosi, che fanno letteralmente paura. Cormac McCarthy lo faceva con eleganza, misura, precisione, con naturalezza. Andava nelle profondità, fino al punto di non ritorno, sapendo come fermarsi, trattenendo il respiro per riportare sulla pagina un oggetto prezioso, levigato dallo scorrere del tempo e del ritmo, bellissimo e tagliente.
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