Nominato nel pieno dell’emergenza pandemica, Nicola Ricciardi, già direttore di OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino, ha visto dinnanzi a sé un percorso in ripida salita. Oggi si inaugura l’edizione 2023 di miart, la terza sotto la sua guida, che vede un rinnovato interesse da parte dei collezionisti di tutta Italia, un raddoppiamento dei numeri di richieste e partecipazioni delle gallerie, un programma collaterale che si espande oltre i muri del Padiglione 3 per coinvolgere attivamente la città. Un bel traguardo, si potrebbe pensare, ma che il direttore di miart vede tutt’altro che come punto di arrivo. <<Dopo questi anni faticosi, mi piacerebbe raccogliere i frutti>> confida a exibart durante l’intervista. Che sia lecito quindi pensare a una riconferma della sua direzione?
Sei al terzo anno della tua direzione. È stato un triennio non facile, che ha visto un brusco arresto causato dalla pandemia e una risalita, come dimostra anche il titolo di quest’ultima edizione. È tempo di tirare qualche bilancio?
È stato un triennio basato su una parola chiave: ricostruzione. Miart, sino al 2019, era una fiera in grandissima espansione, la cui edizione 2020 è stata cancellata a tre mesi dall’apertura, ricchissima di gallerie. Io mi sono trovato nel 2021 a gestirla da capo, in un momento in cui nessuno voleva più farla, in cui non era vista più come prioritaria. È stato un processo ripartito dalle fondamenta. Ricostruire la fiducia nella fiera e nella città è stato fondamentale, tanto che quest’anno sono arrivate il doppio delle application e la presenza di gallerie come Esther Schipper, Perrotin, Gregor Staiger, Tim Van Laere.
Infatti il titolo dell’edizione è un gerundio, verbo in transito, “in crescendo” appunto. A livello programmatico ci suggerisce che i lavori sono in corso…
Assolutamente sì, stiamo salendo una scala dove la strada è ancora lunga e non ho ancora intenzione di lasciarla, in particolare dopo che ci siamo lasciati alle spalle questi anni faticosi… Quest’anno le preoccupazioni ci sono, ma sono state minori rispetto al mondo in cui ho iniziato, dove non era più certo nemmeno se le fiere sarebbero ancora esistite.
Una cosa che mi ha sempre colpito è stata la volontà di mettere un accento poetico sulla programmazione delle edizioni che hai diretto e sui loro titoli. Cosa significa mettere la comunicazione di una fiera commerciale nelle mani della poesia (come dismantling the silence, crescendo)? Potrebbe sembrare quasi un paradosso a primo impatto.
Sono consapevole di essere il direttore di una fiera e non di un’istituzione. Già quando ero direttore di OGR a Torino non ero più un curatore. Ad ogni titolo corrisponde un determinato compito. Essendo miart una piattaforma commerciale l’obiettivo primario è far contenti i galleristi. Detto questo, una cosa non esclude che si possa cercare di estendere il discorso, facendolo crescere fuori dalle mura della fiera. Ci siamo concentrati sulla soddisfazione delle gallerie, con un certo senso di responsabilità che va a sostegno degli artisti, però facendo sì che ciò che nasce come commerciale possa godere anche di altre contaminazioni.
E da qui la poesia?
La poesia mi viene naturale, sono laureato in lettere e mi sono spesso appoggiato ad essa vedendola come perfetta accompagnatrice dell’arte, così come la musica. L’ho fatto precedentemente in OGR con la programmazione di arti visive e musica, ora lo faccio con le parole e gli accenti. Credo che il bello dell’arte sia quello di uscire dal vaso, contaminandosi tra una disciplina e l’altra, andando oltre i confini, come radici che vanno a contaminare le altre discipline. Un buon analista ricondurrebbe tutto questo alla mia pessima grafia e incapacità di scrivere nei margini!
L’abbattimento delle barriere tra diversi settori è anche il tema principale del numero cartaceo 120 che viene presentato per la prima volta a miart. Una dinamica che credo si rifletta anche nell’impostazione della fiera, abbattendo ogni confine tra moderno e contemporaneo, tra design e arte. Qual è il valore aggiunto della contaminazione?
Togliere l’etichette è stato il primo passo, le trovo piuttosto sterili. L’arte esce dai confini per definizione, perché dobbiamo ricacciarla in contenitori prefissati? Quando vedo un’opera di Sottsass non devo etichettarla come design o come contemporaneo, perché forzarla dentro a una definizione? Lasciamo che il visitatore sia libero di usare le proprie categorie. L’arte lega la poesia alla musica nella sua abilità di sfuggire alle categorie. Porto un esempio concreto: l’anno scorso un importante collezionista di contemporaneo mi dice emozionato di aver comprato un auto ritratto di de Chirico; andando a casa sua lo vedo posto come prima opera all’ingresso. Allora ho pensato di essere riuscito nel mio intento: se l’opera fosse stata posta in un settore di moderno probabilmente questo collezionista non l’avrebbe mai neanche incontrata. Quando i collezionisti si perdono nell’esperienza dell’esposizione, magari uscendo anche dalle proprie abitudini, significa che il lavoro è stato fatto bene.
A propositivo di sconfinamento, quest’anno miart è stata propagata per la città, rafforzando il legame con l’artweek, che a Milano curiosamente non ha la stessa forza del rapporto Salone del Mobile – design week.
Se siamo riusciti a sopravvivere al 2020 è soprattutto grazie alla città e alla sua capacità attrattiva. Volevo restituire questo a Milano e ai suoi cittadini, organizzando per esempio i talk alla Triennale, prima limitati entro le mura della fiera e ora accessibili a tutti gratuitamente. Ho pensato ad Artissima, invidiando a Torino un premio che restituiva qualcosa ad un museo (ovvero il Castello di Rivoli con illy). Quest’anno abbiamo introdotto l’iniziativa della Fondazione Henraux Sculpture Commission che prevede la commissione di un’opera a un artista di miart che verrà poi esposta al Museo del Novecento. Un progetto che segue la logica della restituzione, partendo da un contesto commerciale e privato e arrivando alla città e alla restituzione collettiva.
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